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Difesa europea, tra garanzie NATO e scommesse sull’UE


In una serie di dichiarazioni recenti, legate anche al dibattito interno sulla difesa europea, il ministro Crosetto ha sostenuto a più riprese che il governo italiano punta piuttosto sulla NATO e sul suo ‘pilastro’ europeo (ancora da costruire) che non sull’UE in quanto tale. E la ragione addotta per questa preferenza – a parte le controversie nostrane, un po’ artificiali, sul Manifesto di Ventotene – sarebbe che la NATO, a differenza dell’UE, ha l’articolo 5: il trattato di Washington, firmato esattamente 76 anni fa, stabilisce infatti che “un attacco armato contro una o più [delle nazioni aderenti] in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte”, e che in tal caso ciascuna intraprenderà, “individualmente e di concerto con le altre [ .. ], l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”. 

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La preferenza, almeno a breve-medio termine, per le garanzie offerte dall’Alleanza è del tutto legittima, ed è condivisa del resto da molti altri governi europei. Tuttavia, molto dipenderà dalla volontà dell’amministrazione Trump di continuare fornire quelle garanzie e ad impegnarsi militarmente nella NATO e, più in generale, in Europa. Al momento, infatti, è ancora molto difficile decifrare la posizione della Casa Bianca, al di là delle dichiarazioni da good cop di Marco Rubio e delle esternazioni da bad cop di Pete Hegseth. Se ne saprà di più, probabilmente, con l’avvicinarsi del summit NATO previsto per fine giugno all’Aja.

La giustificazione data per la preferenza del governo – l’articolo 5 – è però meno convincente. Prima di tutto, come qualcuno ha già segnalato, anche l’UE ha una sua sorta di articolo 5: è l’articolo 42 (7) del trattato di Lisbona, che stabilisce che “qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso” – anche  se poi specifica che, in sostanza, per i paesi membri della NATO l’Alleanza resta “il fondamento della loro difesa collettiva”, e per gli altri (attualmente Austria, Irlanda, Malta e Cipro) rimane valido il “carattere specifico” della loro politica di sicurezza.

La lettera, lo spirito e l’uso

Entrambi gli articoli hanno una storia. L’articolo 5 fu il risultato di un lungo negoziato transatlantico nel quale Washington insistette per mantenere una certa discrezionalità e flessibilità nell’applicazione del principio del “tutti per uno, uno per tutti” (a sua volta preso alla lettera dal trattato inter-americano di assistenza reciproca firmato nel 1947 da 17 paesi d’oltre Atlantico), inserendo l’uso della forza armata come una soltanto delle possibili risposte a un eventuale attacco. Qui le tradizionali riserve americane nei confronti delle cosiddette “entangling alliances” con gli Stati europei – riserve che datavano ai padri fondatori – si combinavano con la preoccupazione del Senato USA di limitare i ‘poteri di guerra’ del Presidente.

L’articolo 42 (7), per parte sua, è stato inserito nel trattato di Unione solo nel 2009, trasferendovi l’impegno (decisamente più robusto e meno discrezionale) espresso nel vecchio articolo V del trattato dell’Unione dell’Europa Occidentale (UEO) – che stava per essere sciolta – e aggiungendovi i due caveat relativi alla NATO e allo status di neutralità.

Nessuno dei due articoli, in altre parole, offre di per sè garanzie certe di sicurezza e solidarietà collettiva, con chiari automatismi (anche in termini di intervento militare) che ne certifichino la credibilità. Ed entrambi sono stati fino ad oggi attivati (o ‘invocati’, come si dice in gergo) una sola volta e in circostanze del tutto atipiche.

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L’articolo 5, che era stato concepito a suo tempo per assicurare il supporto di Washington agli alleati europei durante la guerra fredda, è stato invece ‘invocato’ all’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre a New York e Washington, e su proposta dell’allora Segretario Generale Lord Robertson. Si può discutere se 9/11 potesse essere considerato un attacco armato vero e proprio (le “armi” principali usate dai terroristi furono aerei di linea carichi di passeggeri), e se Al Qaida potesse essere equiparata a un aggressore statuale. Ma, una volta accertata la provenienza ‘esterna’ dell’attacco,  il Consiglio Atlantico prima “invocò” all’unanimità l’articolo 5 e poi, con una delibera separata, decise di inviare una flotta di aerei-radar AWACS dell’Alleanza negli Stati Uniti per rimpiazzare gli AWACS americani che erano stati inviati in Afghanistan per preparare e accompagnare l’operazione Enduring Freedom contro Al Qaida – che non fu, del resto, un’operazione della NATO.

L’articolo 42 (7), a sua volta, è stato “invocato” dalla Francia pochi giorni dopo l’attacco terroristico (di nuovo) del 15 novembre 2015 al teatro Bataclan e in altre zone della capitale, e si è tradotto prima in una solenne dichiarazione di solidarietà dei 27 partner, e poi in un accordo – negoziato al di fuori delle strutture UE – che ha permesso ai francesi di far rientrare a Parigi alcune unità militari allora impiegate nella regione del Sahel sostituendole in loco con contingenti inviati, in particolare, da Belgio e Spagna.

Una questione di credibilità

Le analogie fra i due casi sono tanto evidenti quanto sorprendenti, e servono anche a spiegare come la lettera di un articolo di trattato non offra di per sé alcuna garanzia di sicurezza, ma soltanto un impegno generale di natura politica la cui credibilità – nella percezione di alleati e avversari – dipende essenzialmente dalle circostanze in cui può essere o non essere tradotto in pratica anche dal punto di vista militare.

Nel caso dell’articolo 5, fra l’altro, il suo valore di garanzia – soprattutto nei confronti di un avversario come la Russia – è anche legato alla protezione rappresentata dall’ombrello nucleare americano: una garanzia, però, che non solo non è precisata nel testo del trattato ma che gli alleati europei (a cominciare da Charles de Gaulle) hanno spesso temuto fosse troppo incerta e volatile. Un vecchio ministro della Difesa britannico, il laburista Denis Healey, era solito dire che bastava un 5 % di credibilità della deterrenza nucleare americana per dissuadere Mosca, mentre il 95% non sarebbe mai bastato a rassicurare gli europei che Washington fosse disposta a sacrificare New York per difendere Bonn. È ovvio che, se a metterla in dubbio dovesse essere proprio la Casa Bianca, il valore aggiunto dell’articolo 5 ne risulterebbe fatalmente intaccato. Ed è forse soprattutto per scongiurare questa prospettiva che gli europei debbono investire più risorse umane e finanziarie (blood and treasure) per la loro difesa, sia all’interno della NATO che attraverso gli strumenti offerti dalla UE.  



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