Per anni al digitale è stato associato a connessioni senza confini, condivisione aperta ed illimitata. Tuttavia, oggi – al tempo della società iperconnessa – assistiamo a un’inversione di tendenza: i consumatori cercano sempre più spazi ristretti, esclusivi e protetti, dove poter condividere esperienze e valori senza essere travolti dal rumore di fondo dei social tradizionali. In questo nuovo paradigma, le comunità chiuse e selettive stanno ridefinendo il rapporto tra utenti e brand, costringendo le aziende a ripensare le proprie strategie di marketing e comunicazione ed a ridefinire le policy di engagement.
Il nuovo ruolo delle comunità digitali
Le community digitali non sono una novità, ma la loro evoluzione recente mostra un passaggio da gruppi generici e aperti a tribù digitali ben definite, dove l’identità collettiva si costruisce tanto attraverso la condivisione quanto attraverso l’opposizione a ciò che resta fuori. I consumatori vogliono interazioni più autentiche e personalizzate, lontano dalla logica dei social network tradizionali che amplificano il contenuto senza filtri e senza un senso di appartenenza reale.
Come ha sottolineato The Drum, il più autorevole sito dedicato al marketing in Europa, la tendenza attuale vede una migrazione verso spazi digitali più ristretti, dove le persone possono interagire con chi condivide interessi comuni, senza essere soffocate da like, views e algoritmi invadenti.
I brand che costruiscono, alimentano e fanno crescere le proprie community si ritrovano con un vantaggio unico scrive Marcus Hernon, Direttore di Hopscotch Ltd, su The Drum
“Sicuramente c’è stata un’evoluzione nella relazione tra i brand e il proprio target che ha segnato un ritorno alla community, una quindicina di anni fa si chiamavano anche ‘tribù’, proprio per rimarcare il forte senso di appartenenza e l’adesione radicata al proprio sistema valoriale” spiega l’esperta di comunicazione Emanuela Goldoni che aggiunge “Siamo passati dalla modalità ‘uno a moltissimi’ a una modalità che rimette al centro ‘uno a community’.
Nel primo caso non esiste un pubblico, perché la pluralità di pubblici è troppo eterogenea e di conseguenza il brand comunica al mero scopo di intrattenere. Al contrario la modalità ‘uno a community’ è quella che alimenta una relazione puntuale e per certi aspetti più rassicurante con i propri pubblici di riferimento. Sarà proprio la coesione della community ad allontanare il brand da un eventuale rischio reputazionale” conclude Goldoni.
Dal rumore di fondo alla rilevanza: la sfida per i brand
Di fronte a questo cambiamento epocale nel modo in cui i le aziende e i loro brand comunicano, si collegano al proprio pubblico di riferimento e creano valore, i marketer devono ripensare le loro strategie. Non si tratta più di raggiungere il maggior numero possibile di persone, ma di creare relazioni autentiche con gruppi selezionati di utenti. Le metriche del successo cambiano: non contano più solo la quantità di interazioni, ma la qualità del legame instaurato.
Per farlo le aziende e i loro brand devono investire nella costruzione di community verticali dove gli utenti possano sentirsi parte di qualcosa di esclusivo e significativo.Spostare il focus dal broadcasting, adottare una comunicazione autentica e partecipativa. Non basta più parlare ai consumatori, ma con i consumatori rendendoli protagonisti dello storytelling del brand. In questo scenario la personalizzazione non è più un’opzione, ma una necessità: la tecnologia, anche con l’aiuto dell’intelligenza artificiale generativa o del metaverso permette di costruire esperienze su misura, rafforzando così il senso di appartenenza e la brand reputation.
Le piattaforme social: da bacheche a veri media
Se un tempo i social erano semplici spazi di aggregazione, oggi stanno assumendo un ruolo più simile a quello dei media tradizionali. Instagram, TikTok e persino LinkedIn stanno spostando il focus dagli utenti ai contenuti, privilegiando format editoriali curati e di qualità.
“I social network si sono trasformati in social media entertainment passando da un ambiente dove si cercava relazione ad ambienti dove si cerca intrattenimento” dice Pietro Raffa Partner e Responsabile Digital e Media Advocay di FB&Associati.
Questo cambiamento impone ai brand di investire in narrazioni più articolate e profonde, in grado di creare un legame emotivo e di valore con il pubblico. Il futuro non sarà più fatto di post virali, ma di community solide e ingaggiate, in cui il valore di un contenuto non si misura solo in termini di reach (il numero totale di persone che vedono i contenuti), ma di fedeltà e partecipazione attiva.
“La community aiuta i brand a creare engagement e gli algoritmi privilegiano i contenuti che lo ottengono nel minor tempo possibile. Una delle considerazioni da fare però è che la rete non si esaurisce con i social. Sistemi di messaggistica istantanea, tra cui Discord, coinvolgono gruppi di persone. Anche strumenti che sembravano vecchi come le newsletter oggi sono strategiche per attivare un’azione” spiega Raffa.
Il marketing basato sulla comunità sta emergendo come una valida alternativa all’uso tradizionale dei social media. Invece di affidarsi a piattaforme sempre più affollate e dominate dagli algoritmi, le aziende stanno creando ecosistemi digitali indipendenti, dove il dialogo con i consumatori è più diretto e significativo.
Ne è convinto Davide Bacarella, Direttore Operativo dell’agenzia creativa Rebel studio “Penso che oggi creare un coinvolgimento significativo solo attraverso i social è estremamente difficile. Non perché i social non funzionino, ma perché il loro modello è cambiato: il semplice fatto di avere follower o fan non garantisce più visibilità organica. Per raggiungere il proprio pubblico, anche quello già acquisito, è necessario investire in advertising. Questo significa che le aziende si trovano a dipendere da piattaforme di terzi, i cui algoritmi e policy possono cambiare da un giorno all’altro, mettendo a rischio tutto l’investimento fatto fino a quel momento.
Per questo motivo, sempre più brand stanno spostando l’attenzione dalle dinamiche social alle community, lavorando su spazi proprietari come forum, newsletter, membership program o eventi esclusivi. Avere una community significa costruire un asset di valore nel tempo, basato su un dialogo continuo e su un’interazione autentica, senza essere ostaggio delle logiche di una piattaforma”.z
Community digitali: come i brand possono sostituire l’approccio tradizionale
Ecco come i marketing manager delle aziende e dei loro brand possono sostituire l’approccio tradizionale:
Creazione di piattaforme proprietarie per coinvolgere i clienti e il pubblico senza dover dipendere da terze parti come Facebook o Instagram ad esempio. Offrire vantaggi ai membri della community, come contenuti esclusivi, eventi riservati o promozioni speciali, rafforza il senso di appartenenza. Strutturare un dialogo più autentico e diretto favorendo un’interazione di qualità superiore.
I social media non scompariranno, ma il loro ruolo sta cambiando: da strumenti di engagement diretto a vetrine per attrarre pubblico e indirizzarlo verso community più ristrette e fidelizzate.
“Devono essere visti come un canale di primo contatto, un mezzo per intercettare nuove persone e poi spostarle in ambienti più controllabili, dove la relazione può consolidarsi e diventare realmente significativa” chiarisce Bacarella.
Pensare al video come strumento di costruzione della community è un passo sicuramente importante. Che ruolo può avere il video in questo ambito? Lo abbiamo chiesto a Nicola Bigi, Presidente di TIWI Studio, specializzati nella creazione di format tv e serie web: “Sui social si possono fare grandi numeri ma poi, molta parte di questi, non sono parte della community. Di per sé può anche essere interessante essere visibile a persone nuove, ma, a volte, è più importante essere visibili a persone che già sono vicine al brand”.
“Se parliamo, invece, di YouTube – aggiunge Bigi – è uno strumento incredibile per costruire community, per due ragioni principali. Da un lato YouTube è un luogo di ricerca, il secondo motore dopo Google, dove, quindi, le persone cercano contenuti utili o divertenti. Dall’altra parte l’iscrizione ad un canale contribuisce in modo sostanziale alla costruzione del feed. In altri termini se sono iscritto a tre canali, il feed sarà composto principalmente da video appartenenti a quei canali”.
Un esempio interessante e poco noto viene dall’azienda di energie rinnovabili Orsted, che vanta più di ventimila iscritti al canale youtube. Il loro canale funziona proprjo come un palinsesto televisivo: dai consigli per gli studenti universitari, alla serie sull’energia spiegata ai bambini, fino al racconto delle tecnologie più avanzate rispetto al tema della energia eolica.
Un altro esempio che può essere interessante è il lavoro svolto proprio da TIWI Studio con Registro.it sul tema della alfabetizzazione digitale rispetto alle PMI. La serie “what a digital world” (link) ha contribuito a costruire la community degli imprenditori che vogliono stare al passo con i temi della digitalizzazione.
BPER Banca, invece, in un’ottica di rafforzamento delle proprie strategie di comunicazione ha puntato su una versione rinnovata della sua newsletter che offre, spesso, contenuti inediti e notizie in anteprima solo per gli iscritti. La newsletter è legata a “Due Punti” il magazine aziendale della Banca che offre articoli e approfondimenti di finanza, ma non solo ed è uno strumento concepito con l’obiettivo, anche, di illustrare l’impegno di BPER per la cultura e la sostenibilità e renderle disponibili a un pubblico sempre più ampio.
Illumia S.p.A. l’azienda bolognese, fondata da Francesco Bernardi nel 2006, che opera nel mercato libero dell’energia elettrica e del gas naturale sostiene l’associazione culturale “Incontri esistenziali”, una community vera e propria di appassionati di cultura legati al territorio bolognese.
Silos digitali non una chiusura ma un’oppotunità per i brand
Il ritorno dei silos digitali non rappresenta una chiusura, ma una nuova opportunità per i brand: quella di costruire relazioni più autentiche e durature con il proprio pubblico. Già nel 2008 il fondatore di Wired Kevin Kelly introdusse una teoria secondo la quale per avere successo, non sono necessari milioni di fan, ma solo 1000 veri fans, ovvero appassionati disposti a comprare tutti i prodotti e a seguirti fedelmente.
In un’epoca di ipercomunicazione, distinguersi non significa urlare più forte, ma creare spazi dove il dialogo sia realmente significativo. Nel suo libro “Community Economy” edito da Egea l’autrice Marta Mainieri afferma che un sistema di appartenenza più forte è necessario tanto ai consumatori quanto ai brand per distinguersi tra loro.
Le community possono offrire molto più di clic o like. Costruiscono lealtà, advocacy e rilevanza a lungo termine. I veri vincitori saranno le aziende e i loro brand che non si limitano a vendere un prodotto o un servizio, ma che costruiscono connessioni, digitali e umane, ispirano, guidano il cambiamento o una parte di esso. Non è più tempo solo di parlarne, ma di iniziare a costruire community. Le opportunità sono immense.
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