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Capitale Inclusivo: un nuovo paradigma economico
di Enrica Rimoldi Senior Advisor, Amministratore, SOAD* Special Invoice for Vatican

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Il capitalismo è regolato dal tempo e dallo spazio.
Sfida al cambiamento climatico, un futuro inclusivo e un futuro digitale per tutte e tutti: sono sia le sfide delle forme di capitalismo attuale sia gli obiettivi del Capitalismo inclusivo che si concretizzano nelle 17 azioni ONU.
Una call for action per tutte e tutti.

Il capitalismo porta crescita e benessere, ma è necessario andare oltre una visione monolitica di capitalismo e abbracciare l’idea che il capitalismo, che non si riferisce solo alla produzione profitti, ai capitali e al mercato, è basato sulla nostra cultura, quindi su come noi pensiamo, agiamo, sui nostri valori e sui nostri credo che formano la rete con la quale il capitalismo si esprime.

Il Capitalismo Liberale

Il capitalismo non è stabile, ma ha subito una evoluzione che si è tradotta nella prosperità e nel benessere dei giorni nostri: guardando agli anni più recenti, il Capitalismo Liberale, che termina con la Prima guerra mondiale, si basa sulla critica di Adam Smith volta ai monopoli ed all’intrusione dello Stato nell’economia. Questi sono anche gli anni in cui l’umanità aumenta la richiesta di risorse naturali per supportare la rivoluzione industriale di quel periodo ed in cui la manifattura si sposta dal labour-intensive tessile ad una industria capital intensive basata sulla tecnologia.

Successivamente, con la grande depressione, lo Stato rientra in gioco portando protezione e creando i primi sistemi di welfare, quelli relativi alla cura della salute e all’istruzione. E’ il periodo in cui l’aggettivo “di massa” viene coniato non solo con riferimento alle imprese ed ai mercati locali ma anche a quelli internazionali per prevenire la distruzione indotta dalla Grande depressione stessa. Ed ecco che nacquero le prime organizzazioni internazionali quali la Word Bank, l’International Monetary Found, il piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa: era il periodo del cosiddetto Capitalismo Manageriale.

Arriviamo quindi agli anni 2000 con il Capitalismo Liberale, termine coniato da Milton Friedman e dai suoi colleghi della Chicago University, che si fonda sulla deregulation del settore privato, sulla liberalizzazione dei mercati, sulle privatizzazioni, globalizzazione e sul libero commercio. Friedman nel 1970 sul New York Times attestò che i manager hanno la primaria responsabilità di creare valore per i loro azionisti e, da allora, il cosiddetto shareholder’s value ha modellato le strategie e la corporate governance delle società alle spese degli aspetti sociali e del pianeta. E’ il periodo in cui nasce l’ingegneria finanziaria, in cui le società incominciano a misurare i risultati ad ogni trimestre e si guarda solo all’ultima riga del bilancio. In questo ambito, i laureati lasciano la manifattura per lavorare nella finanza, nella consulenza e nell’high-tech.

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Dal capitalismo liberal-democratico al capitalismo autoritario

Oggi nel mondo non esiste una sola forma di capitalismo, ma uno spettro di capitalismi che va dal capitalismo liberal-democratico basato sull’individualismo e sulla concorrenza degli USA, della Gran Bretagna e dei paesi anglofoni al capitalismo più autoritario e burocratico di Stato presente in Cina passando per due forme di capitalismo intermedio: il capitalismo social-democratico europeo, dell’Asia, del Giappone, della Corea del Sud e dell’India in cui lo stato mitiga gli impatti più gravi del mercato con la sicurezza sociale e, infine, per il Capitalismo autoritario competitivo in cui la concorrenza è solo nominale in quanto lo Stato controlla il mercato con le istituzione e con restrizioni alla libertà dei singoli, come ad esempio avviene in Russia, in Iran e Venezuela.

Cambiamento climatico, disuguaglianze e digitalizzazione

Oggi, però, tutte queste forme di capitalismo stanno fronteggiando tre sfide importanti – il cambiamento climatico, l’aumento delle disuguaglianze e l’avvento della digitalizzazione  – che non possono che non rappresentare un’altra grande trasformazione dei vari paradigma di capitalismo verso una definizione che, come detto all’inizio di questo pezzo basandosi su quello che noi, come persone, siamo disponibili a fare, non può non andare verso una forma di capitalismo più inclusiva.

Anche prima della crisi finanziaria del 2008-2009, era chiaro che le forme precedenti di capitalismo hanno aumentato la ricchezza di chi era già ricco, a scapito dei lavoratori e di chi non lo era, dell’ambiente e anche di alcune nazioni che sono state “lasciate indietro”. Con il COVID  – ma anche con l’avvento del nuovo Trump  – abbiamo visto la fragilità della globalizzazione basata sulla ricerca dei minori costi di produzione mentre l’introduzione delle sanzioni contro la Russia a seguito dell’invasione dell’Ukraina ha fatto l’emergere la necessità di una stretta collaborazione tra gli Stati.

Alla fine, c’è sempre qualcuno che paga ed i pagamenti sono differiti in quanto ricadono sulle generazioni future.

Per questo è necessario avere consapevolezza dell’urgenza di una discontinuità netta con il passato rispetto a come oggi facciamo le cose, come viviamo, come facciamo business e come misuriamo che cosa davvero vale per le persone e per il pianeta, restituendo ad essi il ruolo centrale, senza escludere nessuno.

Le tre attuali sfide dei capitalismi e le 17 azioni ONU

Ed ecco che le tre attuali sfide dei capitalismi – la sfida al cambiamento climatico, un futuro inclusivo e digitale  – non possono che non diventare i  pilastri del Capitalismo Inclusivo, supportati, per dar loro concretezza, dalle 17 azioni ONU per lo sviluppo sostenibile.

E’ una call for action per persone, imprese e governi. Le persone, perché con il loro potere rappresentato dalla creatività, dall’intraprendenza, dalla loro capacità di innovazione e dai loro comportamenti sono il vero motore del cambiamento. Le imprese, perché come veicolo di trasmissione del capitalismo definiscono nel proprio “purpose” il cambiamento e lo traducono in attività ad alto impatto. I governi, perché è necessario che siano parte attiva del cambiamento, da soli o in partnership con i privati.

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* Il SOAD

The largest state in the world. Let us build Africa together! Il SOAD è l’acronimo di State of the African Diaspora (Stato della Diaspora Africana). Si tratta di un’entità politico-culturale non statale nel senso tradizionale, ma fondata con l’obiettivo di unificare, rappresentare e valorizzare le popolazioni africane e afrodiscendenti che vivono al di fuori dal continente africano. L’Unione Africana riconosce la diaspora africana come la “sesta regione” dell’Africa.



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