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Intervista a Caterina Micolano di Ethicarei


Ethicarei è un’impresa sociale srl che promuove una produzione etica certificata sotto il marchio Made in Dignity. La sua missione è spostare l’attenzione dai prodotti finiti ai processi e alle persone coinvolte, creando opportunità di coinvolgimento per produttori, creativi e aziende nel settore della moda e del design. Con la creazione della prima filiera produttiva etica in Italia, garantita dal Fair Trade, Ethicarei favorisce l’inclusione di soggetti svantaggiati, potenziando l’impatto sociale delle cooperative sociali e migliorando la competitività sul mercato. 

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Cosa fa Ethicarei

Promuove una collaborazione concreta tra laboratori profit e non-profit, nonché fra il mondo scolastico e quello del lavoro, per rispondere alle esigenze di sostenibilità sociale e di formazione. Si distingue per l’offerta di percorsi didattici specifici, preservando le tradizioni artigianali italiane e creando nuovi sbocchi occupazionali per le giovani generazioni. L’impresa favorisce una crescita sostenibile, aiutando i brand ad accedere a un mercato di consumatori consapevoli e a nuove opportunità per i produttori italiani tradizionali. 

L’impresa sociale Ethicarei

In un’epoca in cui la sostenibilità e l’inclusività sono diventate parole chiave nel mondo della moda, Ethicarei si distingue come un esempio. La cooperativa Alice e Ethicarei si inseriscono in un circolo virtuoso che non solo tutela le persone vulnerabili, ma contribuisce al benessere collettivo. Come sottolineato dall’ avvocata Eleonora Di Benedetto della Fondazione Severino, parte del progetto, i numeri parlano chiaro: quando le persone detenute non trovano un inserimento lavorativo, nel 98% dei casi tornano a commettere reati. Al contrario, con l’apprendimento di un lavoro in carcere, la percentuale scende al 2%. Non solo si garantisce una seconda possibilità a chi ha commesso un reato, ma si promuove un’efficace riabilitazione che porta benefici a tutta la società.

Come funziona Ethicarei

Ethicarei colma una lacuna nel sistema produttivo, offrendo formazione specializzata per sarti, macchinisti, pellettieri e calzaturieri, preservando al contempo le tecniche artigianali tradizionali e creando una rete che coinvolge talenti emergenti e grandi marchi. Con una visione volta a promuovere l’innovazione sociale e ambientale, Ethicarei e la cooperativa Alice si impegnano anche a rafforzare la sostenibilità economica delle imprese sociali, aiutandole a sviluppare competenze manageriali, tecniche ed esecutive e rispondere alle sfide del mercato globale. L’integrazione tra il mondo delle imprese profit e quello delle realtà sociali continua a essere una priorità, soprattutto in un contesto normativo in evoluzione, come dimostrano le nuove direttive europee in materia di sostenibilità sociale, CSRD e CSDDD, e i sistemi di valutazione ESG. Nell’intervista ad Artribune, esploriamo come queste iniziative stanno trasformando la moda, aprendo nuovi orizzonti per la risocializzazione e il reinserimento delle persone detenute nel mondo del lavoro, aprendo vedute, mentalità e soprattutto opportunità a chi è invece libero. Il caso qui evidenziato coinvolge il carcere di Bollate (a poca distanza da Milano) quale realtà esemplificativa di questa nuova pratica etica.

Intervista a Caterina Micolano di Ethicarei

Uno dei punti di forza di Ethicarei è la capacità di posizionarsi sul mercato. Com’è stato possibile creare un livello di credibilità tale da permetterlo? 
In realtà la stiamo costruendo, la credibilità, e lo dico non con finta umiltà ma con estremo realismo, perché la credibilità del terzo settore sul mercato produttivo manifatturiero è veramente un’impresa titanica. Inizialmente pensavo che la carenza maggiore su cui lavorare per costruire questa credibilità fossero le competenze tecniche del personale svantaggiato che noi impieghiamo, sapendo di aver bisogno di una preparazione di alto livello per mantenere una reale sostenibilità economica e una vera dignità del lavoro. Ma questo si risolve facilmente con l’alta formazione che per una realtà non profit del terzo settore come la nostra non è impossibile, avendo ampio accesso a bandi e finanziamenti.

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Come avete lavorato quindi?
Abbiamo rivisto la formazione professionale del personale svantaggiato nei suoi processi e nei suoi contenuti, adattandoci alle esigenze reali del mercato del lavoro e non agli standard di formazione a cui siamo abituati nel terzo settore che soddisfano un’occupazione del tempo, insegnamenti basici per intraprendere un hobby. Abbiamo alzato l’asticella e quando i maestri sono bravi, il risultato si raggiunge. 

Invece, cosa ci dici sulla credibilità?
Il problema della credibilità è dato dai processi che alimentano le organizzazioni di terzo settore, le loro organizzazioni aziendali, la loro mentalità, l’approccio al lavoro. Sono le stesse figure del terzo settore e non le persone fragili a essere la causa di questa mancata o parziale credibilità. Siamo noi del terzo settore a mettere le mani avanti quando ci interfacciamo con il mercato, siamo noi che abbiamo un atteggiamento richiedente: chiediamo soldi, aiuto, pietà, compassione, comprensione ma manca una logica contrattualistica, che non vuol dire essere arroganti ma credibili perché la carità non è sostenibile e la filantropia non lo è più.

State mettendo in piedi un vero pilastro dell’economia, cambiando un po’ l’attuale economia che non si è rivelata abbastanza sostenibile.
Hai proprio centrato il punto. Con Ethicarei cerchiamo di costruire un ecosistema – stiamo ancora in ambito sperimentale – basato su un nuovo modello economico win-win di tutti, misurabile, valutabile e economicamente rendicontabile. Sappiamo che per essere un soggetto interessante, dobbiamo generare economia positiva. Ma l’economia non è antitetica all’etica. Forse noi imprese sociali oggi abbiamo il ruolo di cambiare questa mentalità, perché credo che fare del bene non significhi essere caritatevole verso alcune categorie fragili. 

Qual è la sfida?
Confrontarci con un sistema economico che è fragile quanto lo siamo noi, perché le condizioni di fragilità del personale sono diffuse e comuni nelle aziende, i lavoratori sono fragili non solo in carcere. E questo è proprio il nostro obiettivo centrale come Ethicarei, occuparci di lavoro etico e lo abbiamo iniziato a fare partendo dalle estreme periferie dove il lavoro acquisisce da sempre un valore particolarmente forte. 

Un altro ingrediente essenziale è l’interazione tra laboratori profit e laboratori no-profit, mondo scolastico e mondo del lavoro. Come e quando sono nate queste sinergie? 
Tutti possono beneficiarne e tutti possono contribuire a costruirle. È stata prima di tutto una necessità. Ci siamo chiesti: come si contamina il sistema con i temi dell’inclusione? Come possiamo cambiare la narrazione dell’inclusione?Sapevamo che dovevamo alzare gli standard di qualità tecnica di laboratori, quindi siamo partiti dal volontariato professionale, abbiamo chiesto alle maestranze dei laboratori profit di riferimento del lusso, o meglio abbiamo dovuto chiedere alle aziende, di insegnarci il lavoro in termini tecnici e di processo. Ed è stato immediatamente possibile perché è uno strumento previsto dalla legge in cui le aziende traggono benefici fiscali e il riconoscimento di un budget di ore per il proprio personale. E così è iniziato tutto. Bisogna sempre provare a proporre, perché al massimo ti dicono di no. Però bisogna osare, Io non conoscevo nessuno eppure mi hanno ascoltata. È cominciato tutto con un contatto con la pelletteria di Monza.

Raccontaci qualche progetto recente…
Ora sta nascendo una bellissima iniziativa a Bologna, con un laboratorio partner del carcere della Dozza, dove stiamo facendo un upgrade tecnico, abbiamo cominciato a prendere contatti con donne in cassa integrazione, che sono moltissime a causa della chiusura di alcune aziende. Questa soluzione metterebbe di nuovo in attività tante persone che si son trovate a non lavorare da un giorno all’altro e soprattutto permetterebbe la condivisione di un know-how che altrimenti si va a perdere e di cui l’industria ha bisogno. Trasmettere questo tipo di sapienza e di passione credo sia di sollievo anche per chi ha lavorato ed imparato per una vita. Ci vuol del tempo a formare una sarta per bene, ma prima si inizia meglio è. 

Caterina Micolano Foto di Damiano Andreotti

Ovvero?
Se ad esempio so che ci vorranno tre o quattro anni per la formazione allora mi rivolgo alle donne che hanno pene che vanno dai cinque anni in su, e se inizio oggi, tra tre anni ci saranno magari 10 nuove sarte e così al mercato ne mancheranno di meno e si va avanti. Se inoltre le sarte lavorano qualitativamente bene, nel tempo le aziende faranno meno fatica ad assumerle e non si chiederanno più da dove provengono ed è così che si attenuano i pregiudizi.

Ethicarei fa rete con cooperative, reti sociali ed enti del terzo, tutti rigorosamente certificati Fair Trade. Questo significa che il compenso che ricevono le detenute è equo e solidale, pari ad un giusto compenso che riceverebbero da libere fuori dal carcere? 
Sì, questa è la prima regola base sul lavoro e lo scopo statutario delle nostre realtà e questo garantisce un ritorno serio in credibilità, perché noi siamo cooperative di produzione e lavoro; quindi, dobbiamo essere in tal senso credibili. Noi siamo iscritti in Camera di Commercio, nella sezione produzione e lavoro ed è quello che facciamo. Quindi rispettiamo gli standard di mercato, i tempi di consegna, siamo realtà produttive affidabili. Non facciamo stage o tirocini ma lavoro vero e proprio. È a volte ambigua la linea tra etica e sfruttamento nel lavoro sociale, specialmente nel terzo settore perché si abusa di questi strumenti, che vengono usati per anni senza un reale inserimento lavorativo e possono diventare quasi forme di sfruttamento legalizzato. Noi promuoviamo invece la dignità del lavoro e cerchiamo reali opportunità per le persone coinvolte.

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Invece, quali collaborazioni per la formazione avete attivato? Ho letto che lo IED partecipa alla formazione.
Sì, meglio dire gli IED, perché è entrata adesso a far parte del circuito anche la Fondazione Francesco Morelli, che prende il nome dal fondatore del primo Istituto Europeo di Design. Vorrebbero inserire nei loro programmi l’esperienza di educazione al design e al bello nei luoghi fragili come strumento di inclusione sociale. Ci hanno contattato per realizzare insieme progetti ad ampio raggio che non siano fini a sé stessi. Iniziamo questa collaborazione a Bollate dove si occuperanno della formazione nell’Academy per poi replicare l’esperienza nelle altre città dove IED ha sede. La formazione tecnica la stiamo invece impostando con il Gruppo Florence, network di laboratori produttivi molto importanti per il settore del lusso nazionale. Il carcere di Bollate è rinomato per essere considerato un carcere modello, ma sottolineo che il vero cambiamento dipende dalle persone, in particolare dalla mentalità dei direttori e dalla loro apertura. I modelli virtuosi non sono facilmente replicabili perché spesso mancano spazi, risorse o volontà. La vera forza sta nell’engagement delle persone, non nella spettacolarizzazione o nella vetrina delle best practice.

So che l’inaugurazione dell’Academy è stata molto partecipata. Come cambiano le cose con la sua “nascita”?
Si punta a creare una vera linea produttiva, insegnando competenze tecniche, linguaggio professionale e logiche industriali. Il cambiamento riguarda anche l’organizzazione del lavoro, la qualità, l’efficienza e la sostenibilità. I partner chiave del progetto sono Aspesi, Armani e Chloé, che hanno supportato la costruzione di questo ecosistema.

I processi e le persone che realizzano i prodotti sono al centro della vostra attività. Cosa vuol dire nella quotidianità occuparsi di valore sociale, di sostenibilità sociale? 
Penso sempre che dietro a ogni oggetto c’è sempre il lavoro di una o più persone, si tratta quindi di riumanizzare la moda. Un nuovo umanesimo del prodotto e anche del consumo, ritornare a spostare il focus dal prodotto finale alle persone che l’hanno generato, mettendole al centro insieme a quelle che lo indosseranno, affinché ne beneficino sia chi produce che chi consuma. Questo credo che sia l’impegno che noi garantiamo per far sì che il mondo della moda generi sentimenti positivi; infatti, pur capendo le critiche e gli abusi mossi alla fast fashion, si deve riconosce il suo ruolo sociale positivo, soprattutto per chi ha meno risorse. Bisogna sempre a mio avviso guardare tutte le prospettive. Non basta demonizzare la fast fashion: bisogna analizzare i bisogni umani, anche emotivi, legati al consumo. La moda sostenibile deve tenere conto anche di aspetti psicologici e sociali, non solo ambientali o etici.

Qual è il ruolo della cultura nella promozione dello sviluppo sostenibile? È possibile educare alla sostenibilità anche attraverso la bellezza, l’arte, la moda? 
È quello che stiamo cercando di dire. Forse educare attraverso il bello fa capire alle persone che il cambiamento di cui si parla non è un cambiamento traumatico che deve spaventare, ma è un’evoluzione verso qualcosa che eleva. E come sempre serve generare cultura. La cultura è la culla dell’educazione. Io ho una formazione classica, però per esempio i miei studi archeologici mi hanno insegnato una cosa che porto avanti ancora oggi: quello che fa un buon archeologo non è la quantità dei reperti che trovi scavando, ma è la tua capacità di interpretarli. Perché a volte basta un singolo reperto ben analizzato per comprendere tutti gli altri. Poi ho lavorato con Pistoletto e l’opera L’universo speculare, che suggerisce l’idea di un universo che si riflette e si moltiplica, invitando lo spettatore a considerare la propria posizione all’interno di un tutto più grande, mi ha ispirata e torna nella mia vita. Quello che noi insegniamo alle donne attraverso la sartoria è cheil rispetto delle regole libera la creatività e ci rende libere.

Margherita Cuccia

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