Tutte le imprese – dalla piccola azienda familiare alla grande società quotata, fino alla startup innovativa – possono trovarsi ad affrontare una crisi di impresa nel corso della loro attività. Una crisi aziendale si manifesta tipicamente quando l’azienda entra in difficoltà economico-finanziaria e fatica a far fronte alle proprie obbligazioni, preannunciando un possibile stato di insolvenza. In questi frangenti è fondamentale agire tempestivamente e in modo organizzato, combinando interventi pratici sul business (ristrutturazione del debito, riorganizzazione operativa, rilancio dell’attività, gestione della comunicazione) con appropriate strategie legali (utilizzo degli strumenti previsti dalla normativa fallimentare e dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza). L’obiettivo di questa guida è fornire un quadro completo e aggiornato su come uscire da una crisi di impresa, illustrando le soluzioni disponibili per salvaguardare la continuità aziendale o, nei casi estremi, gestire al meglio la liquidazione dell’attività.
Ma andiamo ora ad approfondire con Studio Monardo, gli avvocati specializzati in crisi d’impresa che aiutano le aziende in difficoltà:
Cos’è una Crisi di Impresa? Segnali e Implicazioni
Una crisi di impresa può essere definita, in termini giuridici, come lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni nei successivi 12 mesi. In parole più semplici, la crisi è quella fase in cui l’azienda comincia a non generare liquidità sufficiente a onorare puntualmente debiti e impegni, pur non essendo ancora in uno stato di insolvenza conclamata. Se non gestita, la crisi è il preludio all’insolvenza vera e propria (incapacità definitiva di pagare i debiti alle scadenze) e quindi all’apertura di procedure concorsuali (concordato, fallimento o altre). Riconoscere per tempo la crisi offre dunque la possibilità di intervenire prima che la situazione diventi irreparabile.
Segnali tipici di una crisi aziendale: I sintomi di difficoltà possono essere finanziari, patrimoniali o operativi. Ad esempio: calo significativo di liquidità in cassa, ritardi nei pagamenti ai fornitori, utilizzo costante di fidi bancari al limite, aumento dell’indebitamento a breve, erosione del patrimonio netto (capitale proprio), perdite di esercizio ricorrenti, flussi di cassa negativi, aumento delle scorte invendute, perdita di clienti importanti, tensioni con i fornitori o con i dipendenti, ecc. La normativa italiana ha anche identificato alcuni indicatori quantitativi di allerta. In origine il Codice della Crisi prevedeva specifici indici elaborati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti (CNDCEC), sette in tutto, utili a individuare uno stato di crisi d’impresa. Questi includevano: (1) Patrimonio Netto (capitale proprio) negativo o sotto il minimo di legge, (2) DSCR (Debt Service Coverage Ratio) a 6 mesi < 1, (3) Indice di sostenibilità degli oneri finanziari (es. rapporto oneri finanziari/ricavi), (4) Indice di adeguatezza patrimoniale (es. rapporto patrimonio netto/debiti totali), (5) Indice di ritorno liquido dell’attivo (liquidità da attivo), (6) Indice di liquidità (rapporto attività a breve/passività a breve), (7) Indice di indebitamento tributario e previdenziale. Oggi questi indici non sono più obbligatori per legge (il nuovo Codice della Crisi aggiornato li ha rimossi come parametro rigido), tuttavia restano indicatori di riferimento preziosi: monitorarli regolarmente consente all’imprenditore di cogliere i primi sintomi di squilibrio e intervenire con misure correttive prima che la crisi si aggravi. Ad esempio, un patrimonio netto divenuto negativo segnala che l’azienda ha consumato tutto il capitale proprio ed è presumibilmente in stato di crisi, rendendo necessaria o la ricapitalizzazione o la liquidazione. Analogamente, un DSCR (indice di copertura del servizio del debito) inferiore a 1 significa che nei prossimi sei mesi l’azienda non genera cassa sufficiente a pagare i debiti in scadenza – un campanello d’allarme grave che richiede azioni immediate.
Crisi vs Insolvenza: è importante distinguere il concetto di crisi da quello di insolvenza. La crisi ha carattere previsivo e reversibile: indica una difficoltà che rende probabile l’insolvenza futura, ma con adeguate misure l’impresa può ancora risanarsi. L’insolvenza, invece, è lo stato attuale di dissesto conclamato, in cui l’impresa non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (es. non paga stipendi, fornitori, tasse, rate di mutui, ecc.) e non vi sono prospettive realistiche di recupero immediato. Giuridicamente, l’insolvenza (stato d’insolvenza ex art. 2, c.1, lett. b, CCII) legittima l’apertura della procedura fallimentare (oggi liquidazione giudiziale), mentre lo stato di crisi (art. 2, c.1, lett. a, CCII) legittima l’accesso a strumenti di risanamento come concordati preventivi, accordi di ristrutturazione, piani attestati e la nuova composizione negoziata, prima di arrivare al fallimento. In sostanza: la crisi è un allarme, l’insolvenza è il fatto compiuto. Uscire dalla crisi significa evitare di precipitare nell’insolvenza e nelle pesanti conseguenze che questa comporta.
Qual è Il Quadro Normativo Italiano Della Crisi D’Impresa (aggiornato al 2025)
Negli ultimi anni l’Italia ha attuato una profonda riforma della disciplina fallimentare e delle procedure concorsuali, culminata nel Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) introdotto con D.Lgs. 14/2019. Questo nuovo corpus normativo – più volte modificato e posticipato – è entrato in vigore in via definitiva il 15 luglio 2022, sostituendo la vecchia Legge Fallimentare del 1942. L’impianto del Codice della Crisi è orientato a favorire l’emersione precoce delle difficoltà aziendali e il salvataggio delle imprese ancora risanabili, in un’ottica di prosecuzione dell’attività ove possibile, relegando la liquidazione fallimentare a soluzione residuale. Successive modifiche (decreti correttivi) nel 2020, 2022 e 2023-2024 hanno integrato nel Codice sia le misure introdotte in via d’urgenza durante la pandemia (es. la Composizione Negoziata della crisi, originariamente introdotta dal D.L. 118/2021) sia le previsioni della direttiva europea Insolvency 2019/1023. Al aprile 2025, la normativa di riferimento è dunque il CCII come modificato dai decreti correttivi (da ultimo il D.Lgs. 136/2024, cosiddetto “Correttivo-ter”), che ha ulteriormente raffinato alcuni strumenti (ad es. ampliando la possibilità di transazione fiscale con il Fisco e il cram-down sui crediti erariali).
Ecco, in sintesi, le principali categorie di strumenti legali oggi a disposizione per gestire una crisi d’impresa in Italia:
- Strumenti di Allerta e Prevenzione: misure per favorire l’emersione tempestiva della crisi. Include l’obbligo per l’imprenditore di dotarsi di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili idonei a rilevare squilibri e monitorare la continuità aziendale (art. 3 CCII). In origine il Codice prevedeva meccanismi di allerta esterna (segnalazioni da parte di creditori pubblici qualificati come Agenzia Entrate, INPS, etc. al superamento di certe soglie di debito scaduto), ma tali meccanismi sono stati ridimensionati e di fatto sostituiti da un approccio più volontario basato sulla composizione negoziata. Resta invece in vigore l’obbligo per gli organi di controllo interni (sindaci, revisori) di segnalare immediatamente agli amministratori gli indizi di crisi affinché attivino gli strumenti di tutela.
- Strumenti di Risanamento Stragiudiziale: soluzioni negoziali volontarie che l’imprenditore può perseguire al di fuori delle aule di tribunale, come il piano attestato di risanamento (art. 56 CCII, già art. 67 LF) e, in parte, la nuova composizione negoziata della crisi (che inizia in via riservata, con eventuale successiva omologazione di accordi). Questi strumenti evitano la pubblicità e le formalità di una procedura concorsuale, puntando a un accordo con i creditori nell’interesse comune a evitare il fallimento.
- Procedure Concorsuali di Ristrutturazione: sono procedure giudiziali (o para-giudiziali) con cui si mira al risanamento dell’impresa attraverso un accordo vincolante con i creditori, sotto il controllo del tribunale. Rientrano in questa categoria: il concordato preventivo (in versione “in continuità aziendale” se l’azienda prosegue l’attività, o “liquidatorio” se invece si prevede la cessione/liquidazione dei beni), gli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati dal tribunale (artt. 57-64 CCII, ex art. 182-bis LF), e il nuovo piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO) introdotto nel 2022 (art. 64-bis CCII) che consente una ristrutturazione preventiva con maggiore snellezza e con possibilità di imporre il piano a tutte le classi di creditori purché vi sia unanimità tra le classi stesse.
- Procedure Liquidatorie: quando il risanamento non è possibile, restano gli strumenti per liquidare l’impresa in modo ordinato. Qui troviamo la liquidazione giudiziale (il nuovo nome del fallimento, artt. 121 e ss. CCII) e, per le imprese minori e i debitori civili non fallibili, la liquidazione controllata del sovraindebitato (art. 268 e ss. CCII, erede della liquidazione ex L.3/2012). Queste procedure comportano la spossessamento dell’imprenditore dai beni aziendali, che vengono gestiti da un curatore nominato dal tribunale per soddisfare i creditori secondo le cause di prelazione. Va sottolineato che la liquidazione giudiziale è intesa come ultima ratio: nel Codice della Crisi essa è stata volutamente collocata dopo gli altri strumenti proprio per rimarcarne il carattere residuale a fronte del preferibile salvataggio delle imprese in difficoltà.
- Procedure di Sovraindebitamento: forme speciali di composizione della crisi destinate ai debitori non fallibili (consumatori, piccole imprese sotto soglia, imprenditori agricoli, start-up innovative se non raggiungono requisiti di fallibilità, professionisti). Il CCII ha sostituito la vecchia legge 3/2012 (cd. “salva suicidi”) con procedure ad hoc: il piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore (per chi ha debiti personali prevalentemente da esigenze di consumo), il concordato minore (per piccoli imprenditori sotto le soglie di fallibilità), e la liquidazione controllata. Tali procedure sono analoghe nei principi ai concordati preventivi e al fallimento, ma semplificate e adattate a dimensioni più piccole. Ne parleremo in dettaglio più avanti.
Questa guida approfondirà ciascuna di queste categorie, evidenziando come utilizzarle in pratica per superare la crisi.
Prevenire e Intercettare la Crisi D’Impresa: Allerta Precoce e Adeguati Assetti
La prima strategia per “uscire” da una crisi è in realtà prevenirla o intercettarla ai primi segnali. Un buon imprenditore dovrebbe adottare un approccio proattivo, dotando la propria azienda di strumenti organizzativi e di controllo capaci di far emergere tempestivamente eventuali squilibri. Il nuovo art. 3 del Codice della Crisi impone espressamente all’imprenditore (societario o collettivo) di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita di continuità aziendale. Ciò significa, in concreto, mettere in atto sistemi di monitoraggio costante di alcuni indicatori chiave di performance finanziaria e gestionale.
Indicatori di crisi d’impresa da monitorare
Sebbene, come detto, non esista più un set normativo rigido di indici di allerta, nella prassi professionale vengono considerati importanti i seguenti parametri (declinabili in base al settore e alla struttura aziendale):
- Andamento del Patrimonio Netto: un capitale netto che si assottiglia nel tempo, tendendo al valore zero o negativo, segnala che le perdite stanno erodendo i mezzi propri. Il patrimonio netto negativo (o sotto il minimo legale per le società di capitali) è uno stato che impone per legge un intervento (ricapitalizzazione oppure scioglimento della società per riduzione capitale sotto il minimo ex art. 2482-ter c.c.) e indica una crisi grave.
- DSCR (Debt Service Coverage Ratio) prospettico: è il rapporto tra i flussi di cassa previsti e il servizio del debito (quote capitale + interessi) in un dato orizzonte temporale, tipicamente 6 o 12 mesi. Un DSCR < 1 significa che, su base prospettica, l’azienda non genera abbastanza cassa per pagare i debiti in scadenza nel periodo considerato – segnale di probabile tensione finanziaria. Il DSCR è ritenuto un indicatore principe della sostenibilità del debito.
- Indice di Liquidità (o Current ratio): rapporto tra attività correnti (liquidità e crediti a breve) e passività correnti (debiti a breve termine). Se significativamente <1, indica che l’attivo a breve non copre il passivo a breve, preludio a possibili insolvenze tecniche.
- Indice di Indebitamento tributario/previdenziale: monitorare l’ammontare di debiti verso Erario ed Enti previdenziali. Accumuli rilevanti di debiti fiscali o contributivi scaduti (es. più rate di IVA non versata, DURC irregolare per mancato pagamento contributi) sono spesso indice che la crisi di liquidità è in atto e l’azienda sta finanziandosi omettendo pagamenti obbligatori. Oltre a essere un sintomo grave, questa situazione comporta rischi (cartelle esattoriali, pignoramenti) e può precludere l’accesso a misure premiali.
- Altri indici economici e finanziari: ad esempio margine operativo lordo (EBITDA) in calo o negativo, indice di sostenibilità degli oneri finanziari (oneri finanziari/EBITDA) elevato, indice di rotazione magazzino molto basso (rimanenze che si accumulano), ecc. Ognuno di questi segnali dovrebbe essere contestualizzato nel settore (da qui l’idea di alcuni indici “settoriali” proposti dal CNDCEC) e nella storia aziendale.
Oltre agli indicatori quantitativi, segnali qualitativi come tensioni con fornitori (fornitori che iniziano a chiedere pagamenti anticipati o bloccano le forniture), malumori dei dipendenti per stipendi in ritardo, feedback negativi da banche (rating peggiorato, richiesta di rientro dalle esposizioni), costituiscono anch’essi un campanello d’allarme.
Sistemi di allerta interna: Alla luce di quanto sopra, le imprese – in particolare le PMI che tradizionalmente sono più carenti su questo fronte – dovrebbero implementare sistemi di controllo di gestione e reporting finanziario periodico. Ad esempio, predisporre bilanci infra-annuali (trimestrali) per verificare l’andamento, utilizzare software gestionali che segnalino scostamenti (un calo di liquidità, un aumento anomalo di crediti scaduti, etc.), e in generale creare una cultura aziendale orientata alla pianificazione. Il management deve avere sotto controllo la situazione economica, finanziaria e patrimoniale in tempo quasi reale, così da poter individuare e comprendere le cause di eventuali squilibri.
Adeguati assetti organizzativi e ruolo degli amministratori
L’obbligo degli adeguati assetti comporta che gli amministratori curino: una struttura organizzativa con deleghe e procedure chiare, un sistema amministrativo-contabile affidabile (contabilità aggiornata, bilanci veritieri), e strumenti di pianificazione finanziaria (budget, business plan, analisi dei flussi di cassa prospettici). Solo così si può attuare il monitoraggio continuo richiesto dalla legge. È bene sottolineare che gli amministratori che omettano di attivarsi di fronte a indizi di crisi rischiano responsabilità sia civili che, in alcuni casi, penali. Ad esempio, proseguire l’attività aggravando il dissesto (wrongful trading) può esporli ad azioni di responsabilità patrimoniale da parte di creditori o curatori fallimentari. Inoltre, il Codice della Crisi prevede l’obbligo di attivarsi tempestivamente: l’imprenditore deve adottare senza indugio uno degli strumenti di regolazione della crisi quando ricorrono le condizioni (art. 24 CCII). L’inazione colpevole di fronte alla crisi può precludere l’accesso a taluni benefici (esdebitazione, esonero da responsabilità). Pertanto, appena la crisi viene rilevata, è doveroso per il management rivolgersi a esperti e valutare le opzioni di risanamento.
Allerta esterna e Composizione Negoziata (novità)
Il Codice della Crisi nella sua versione originaria aveva introdotto un sistema di allerta esterna tramite organismi istituiti presso le Camere di Commercio (gli OCRI – Organismi di Composizione della Crisi), attivabili su segnalazione di determinati creditori pubblici qualificati (Agenzia Entrate, INPS, agente della riscossione) quando un’impresa accumulava debiti fiscali o contributivi oltre soglie critiche, oppure su segnalazione degli organi di controllo interni. Tale sistema, volto a “scovare” le crisi il prima possibile, non è mai entrato pienamente in vigore a causa di vari rinvii e delle perplessità emerse (il rischio era di far scattare troppe segnalazioni in un periodo già critico come il post-pandemia). Di fatto, con il D.L. 118/2021 si è scelta una strada diversa: incentivare l’imprenditore stesso ad attivarsi volontariamente, offrendo uno strumento di emersione assistita della crisi privo di stigma, ovvero la Composizione Negoziata per la soluzione della crisi d’impresa. Questo istituto – divenuto operativo da novembre 2021 e poi confluito nel Codice della Crisi agli artt. 12-25-undecies CCII – consente all’imprenditore in difficoltà di richiedere (tramite una piattaforma online dedicata) la nomina di un esperto indipendente che lo assista nel tentativo di trovare un accordo con i creditori, il tutto in modo riservato (quindi senza immediate iscrizioni pregiudizievoli o pubblicità). La Composizione Negoziata sarà trattata approfonditamente più avanti; qui preme evidenziare che rappresenta un meccanismo di allerta “privata”: anziché subire la segnalazione esterna, è l’impresa stessa che, se ben guidata dai propri consulenti, dovrebbe utilizzare questo strumento appena la situazione inizia a precipitare. A tal fine, la piattaforma telematica predisposta dal sistema camerale mette a disposizione anche un test preliminare di autodiagnosi: inserendo alcuni dati economico-finanziari aziendali, si può ottenere un riscontro sul grado di gravità della situazione e sulla “ragionevole perseguibilità del risanamento” (il che aiuta a decidere se attivare o meno la procedura assistita).
In sintesi, la prevenzione della crisi passa da: monitoraggio costante, cultura aziendale della pianificazione, segnalazione interna tempestiva e, quando necessario, utilizzo proattivo degli strumenti di composizione offerti dalla legge prima che sia troppo tardi. La tempestività è cruciale: “prima si interviene, maggiori sono le possibilità di successo”.
Gestione Pratica della Crisi: Come Funziona Il Piano di Risanamento e Azioni Immediate
Quando un’impresa entra in crisi, occorre agire su due fronti paralleli: da un lato la gestione operativa/finanziaria dell’azienda (per tamponare le perdite, ripristinare la liquidità e raddrizzare la rotta del business), dall’altro il percorso legale più appropriato per proteggere l’impresa dai creditori e ristrutturare i debiti. Prima di immergerci negli strumenti legali specifici, esaminiamo le strategie pratiche e manageriali per fronteggiare la crisi, che spesso costituiscono il contenuto sostanziale di qualsiasi piano di risanamento.
Analisi delle Cause e Diagnosi della Crisi d’Impresa
La primissima azione da compiere è una lucida analisi delle cause che hanno generato la crisi. Senza capire perché l’impresa è in difficoltà, qualsiasi rimedio rischia di essere inefficace o temporaneo. Le cause possono essere interne (cattiva gestione, costi fuori controllo, investimenti errati, prodotti obsoleti, inefficienze produttive, litigi societari) ed esterne (calo della domanda di mercato, ingresso di nuovi concorrenti, perdita di un cliente chiave, crisi settoriali, aumento prezzi materie prime, pandemia, guerra, etc. – eventi straordinari fuori dal controllo dell’azienda). Spesso concorrono più fattori. È utile coinvolgere in questa diagnosi figure professionali esperte in turnaround (risanamento aziendale) in grado di avere uno sguardo oggettivo: un consulente di direzione, un advisor finanziario o un dottore commercialista con esperienza di ristrutturazioni potrà condurre una due diligence sull’azienda e redigere una relazione sulle cause del dissesto e sulle possibili cure. Questa analisi iniziale alimenta la predisposizione di un Piano Industriale di Risanamento.
Piano di risanamento: Si tratta di un documento strategico-operativo che delinei con chiarezza le azioni da intraprendere per riportare in equilibrio l’azienda. Un buon piano di risanamento contiene tipicamente:
- una descrizione onesta dello stato attuale dell’azienda (organizzazione, mercato, prodotti, situazione finanziaria e debitoria);
- l’elenco delle cause della crisi individuate;
- la strategia di risanamento proposta, articolata in specifiche azioni correttive (es. riduzione costi, dismissione di rami d’azienda non redditizi, lancio di nuovi prodotti, rinegoziazione dei debiti, aumento di capitale, ingresso di nuovi investitori, cambio management, ecc.);
- un piano industriale pluriennale (tipicamente a 3-5 anni) con proiezioni economico-finanziarie dettagliate, che dimostri come e in quanto tempo l’azienda tornerà in utile e genererà cassa sufficiente a sostenere il debito ristrutturato;
- uno schema di piano finanziario per la gestione del debito pregresso: ad esempio percentuali di taglio del debito o dilazioni di pagamento, eventuali conversioni di credito in capitale, risorse finanziarie aggiuntive necessarie (nuovi finanziamenti, garanzie, apporti dei soci).
Questo piano di risanamento sarà il fulcro di qualunque trattativa con i creditori e costituirà la base per accedere agli strumenti legali (è richiesto dal tribunale nel concordato preventivo, funge da contenuto dell’accordo nei piani attestati e accordi di ristrutturazione, ed è necessario anche nella composizione negoziata). Conviene quindi redigerlo con cura e realismo, magari facendolo attestare da un professionista indipendente (vedremo oltre l’attestazione).
Come Funziona La Ristrutturazione Operativa e Finanziaria
Parallelamente alla pianificazione, spesso occorre procedere subito con alcune azioni “di emergenza” per ridurre le perdite e preservare la cassa:
- Taglio dei costi: identificare i costi non essenziali o eccessivi e ridurli drasticamente. Ciò può includere la riduzione di spese generali, la rinegoziazione dei contratti di fornitura a condizioni migliori, il ridimensionamento di viaggi, consulenze e benefit, la sospensione di progetti di investimento non strategici. Attenzione a non tagliare aree che generano ricavi (sarebbe “tagliare i muscoli invece del grasso”); concentrare i tagli su inefficienze e sprechi.
- Riorganizzazione del personale: se il costo del lavoro è diventato insostenibile rispetto al fatturato, valutare misure come il ricorso agli ammortizzatori sociali (es. Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria per crisi aziendale, contratti di solidarietà) per alleggerire temporaneamente il costo del personale senza licenziamenti immediati. In casi estremi potrebbe rendersi necessario un piano di esuberi con licenziamenti collettivi, accompagnato da incentivi all’esodo o ricollocamento. È fondamentale gestire questo processo con sensibilità e nel rispetto delle norme (procedure sindacali, tempi di preavviso, ecc.) per contenere il rischio di conflittualità e ulteriore danno reputazionale.
- Gestione attiva del circolante: ottimizzare il capitale circolante per generare liquidità. Ad esempio, accelerare la riscossione dei crediti verso clienti (offrendo sconti per pronto pagamento, sollecitando gli arretrati magari con piani di rientro), ridurre le scorte di magazzino vendendo i prodotti invenduti anche a saldo se necessario (il cash is king in crisi: meglio liquidità subito che merce ferma), posticipare ove possibile i pagamenti ai fornitori (senza compromettere il rapporto, magari concordando estensioni di termine). Attenzione però a non incorrere in nuovi debiti che poi non si potranno pagare: la gestione deve essere oculata e concordata.
- Cessione di asset non strategici: valutare se l’azienda possiede beni o rami d’azienda vendibili senza intaccare il core business (esempio: immobili non più utilizzati, partecipazioni in società terze, macchinari inutilizzati, marchi secondari). La vendita di tali asset può fornire liquidità preziosa da destinare al risanamento (ad esempio per pagare debiti urgenti o finanziare investimenti chiave del piano di rilancio). Queste dismissioni, se significative, dovrebbero essere inserite nel piano e condivise con i creditori, anche perché potrebbero richiedere autorizzazioni in sede concorsuale poi.
- Ricerca di nuova finanza: spesso uscire dalla crisi richiede un afflusso di capitali freschi. Ciò può assumere la forma di un aumento di capitale da parte dei soci esistenti o l’ingresso di un nuovo socio investitore (equity), oppure l’ottenimento di nuovi finanziamenti (debt). Chiaramente ottenere credito da banche o terzi durante la crisi è difficile perché l’azienda è percepita come rischiosa; ecco perché a volte è necessario ricorrere a finanza ponte o garantita dallo Stato (ad esempio crediti garantiti dal Fondo Centrale di Garanzia, se accessibili, o finanziamenti prededucibili in concordato, vedi oltre). Un partner industriale interessato potrebbe investire nell’impresa se intravede prospettive di rilancio – magari rilevando una quota. Tutte queste mosse vanno calibrate: nuova finanza significa dare qualcosa in cambio (quote societarie nel caso di equity, garanzie e interessi nel caso di debito). Nel contesto legale, il Codice della Crisi ha previsto misure per favorire la finanza durante la ristrutturazione, come lo status di prededuzione (priorità di rimborso) per i nuovi finanziamenti autorizzati dal giudice in concordato o accordi, e la tutela dei finanziatori terzi.
In sostanza, la ristrutturazione operativa e finanziaria consiste nel ridurre il fabbisogno finanziario (meno uscite di cassa, più entrate) e stabilizzare l’attività nell’immediato, mentre si lavora al disegno di lungo termine. Molte volte è una corsa contro il tempo: l’azienda deve guadagnare mesi preziosi per far decollare le misure di rilancio, evitando nel frattempo il collasso. Per questo, se la situazione è molto tesa, è utile ricorrere subito agli strumenti legali che offrono protezione (ad es. misure protettive della composizione negoziata, o un filing “prenotativo” di concordato per congelare le azioni esecutive dei creditori). Ne parleremo a breve.
Comunicazione Interna ed Esterna nella Crisi
Un aspetto spesso sottovalutato ma cruciale nella gestione di una crisi d’impresa è la comunicazione verso gli stakeholder: dipendenti, fornitori, clienti, banche, azionisti e – nel caso di aziende di rilevanza pubblica – media e opinione pubblica. Una comunicazione inadatta può aggravare la crisi causando panico o perdita di fiducia, mentre una comunicazione ben gestita può aiutare a mantenere coesione e supporto intorno all’azienda durante il periodo difficile.
Comunicazione interna (dipendenti e management): È fondamentale informare adeguatamente i dipendenti sulla situazione dell’azienda. Nascondere la verità o minimizzare oltre il plausibile può generare voci incontrollate e abbassare il morale. D’altra parte, occorre dare un messaggio equilibrato: riconoscere le difficoltà ma illustrare anche il piano di risanamento in atto e le prospettive di salvezza, così da coinvolgere il personale nello sforzo comune. Spesso i dipendenti sono i primi a notare i segnali di crisi (stipendi in ritardo, calo ordini) e apprezzano una comunicazione onesta e trasparente. Organizzare incontri con il personale, eventualmente con l’affiancamento di un consulente del lavoro o di un esperto in gestione delle crisi, può essere utile per spiegare le misure che si intendono prendere (ad esempio: “per evitare licenziamenti stiamo attivando la cassa integrazione e riorganizzando l’azienda”). È importante anche ascoltare le preoccupazioni dei lavoratori e coinvolgerli se possibile nelle soluzioni (idee per tagliare costi, disponibilità a riduzioni temporanee di orario, etc.). Un clima interno coeso evita il fuggi-fuggi dei talenti migliori e aiuta a mantenere la produttività durante la crisi.
Comunicazione esterna (fornitori, clienti, banche): Con i partner esterni serve un approccio strategico. Fornitori chiave: vanno contattati proattivamente per spiegare la situazione, rassicurarli sulla volontà di pagamento (magari proponendo un piano di rientro del debito verso di loro, compatibilmente con la procedura di risanamento scelta) e soprattutto confermare la prosecuzione dei rapporti commerciali. Se un’azienda in crisi riesce a mantenere la fiducia dei fornitori, eviterà che questi interrompano le forniture o passino a modalità più dure (richieste di pagamento anticipato, decreti ingiuntivi). In molti casi, i fornitori – specie se di lunga data – preferiscono supportare un piano di risanamento (ad esempio accettando dilazioni) piuttosto che perdere il cliente per fallimento, purché la comunicazione sia chiara e credibile. Lo stesso vale per i clienti: bisogna evitare che grandi clienti percepiscano il rischio di affidarsi a un fornitore “in odore di fallimento” e cerchino alternative. Se trapela la notizia della crisi (ad es. deposizione di un concordato), è opportuno contattare i clienti principali, spiegando che l’azienda sta ristrutturando per tornare più solida e che potrà continuare a servire gli ordini. In alcuni casi si può offrire qualche garanzia (come accordi escrow per la consegna dei prodotti, o assicurazioni sul credito) per farli restare. Con le banche creditrici, la comunicazione è spesso già formale nell’ambito di trattative di ristrutturazione del debito: è bene però mantenere un dialogo costante e collaborativo, fornendo le informazioni richieste, il piano industriale, e mostrando impegno. Banche e istituti finanziari tendono a essere razionali: se vedono un piano credibile preferiscono ristrutturare il credito (allungando le scadenze, riducendo il tasso, talvolta rinunciando a parte del credito) piuttosto che avviare azioni legali costose che porterebbero a incassi minori.
Media e opinione pubblica: Questo aspetto tocca soprattutto le imprese più grandi o con forte impatto sul territorio. Una crisi aziendale di rilievo può finire sui giornali locali o nazionali. Gestire la comunicazione pubblica diventa allora essenziale per salvaguardare la reputation aziendale. Potrebbe essere utile nominare un responsabile comunicazione o avvalersi di un’agenzia di crisis communication. Le linee guida generali sono: comunicare fatti veri evitando il no comment assoluto (che genera speculazioni), sottolineare gli sforzi in corso per il salvataggio, e mantenere un tono empatico verso eventuali parti colpite (ad es. “siamo consapevoli delle preoccupazioni di lavoratori e creditori, stiamo facendo tutto il possibile per garantire la continuità aziendale”). I comunicati stampa vanno calibrati con l’ufficio legale, perché un eccesso di ottimismo o dichiarazioni incaute potrebbero ritorcersi contro in sede giudiziaria. Ad esempio, in procedura concordataria, tutto ciò che l’azienda comunica pubblicamente potrebbe essere valutato dai creditori o dal tribunale.
In sintesi, una strategia di comunicazione ben studiata è parte integrante della gestione della crisi. Bisogna ridurre l’incertezza tra gli stakeholder e mantenere la fiducia nelle prospettive di risanamento, bilanciando trasparenza e riservatezza (ci sono informazioni sensibili – ad es. trattative riservate con investitori – che vanno divulgate solo al momento opportuno). Ogni categoria di interlocutori ha esigenze diverse e va gestita con messaggi appropriati.
Come Affrontare Una Crisi D’impresa: Supporto Professionale e Team di Crisi
Affrontare una crisi d’impresa è un compito complesso che raramente può essere svolto efficacemente dal solo imprenditore o dal management interno, soprattutto se la situazione è degenerata. Coinvolgere professionisti esterni specializzati può fare la differenza tra il fallimento e il successo del risanamento. A seconda della gravità e della dimensione della crisi, l’impresa dovrebbe considerare di comporre un team di crisi con competenze multidisciplinari:
- Un advisor finanziario o dottore commercialista esperto in ristrutturazioni, per analizzare i numeri, predisporre il piano finanziario e dialogare con banche/creditori.
- Un consulente di management o interim manager specializzato in turnaround operativo, che possa aiutare l’azienda a implementare rapidamente le azioni correttive (a volte vengono inseriti in azienda temporary manager per la ristrutturazione).
- Un avvocato specializzato in diritto fallimentare o crisis management legal, per consigliare sullo strumento legale più adatto (concordato, accordo, ecc.), gestire gli aspetti giuridici delle trattative con i creditori e preparare la documentazione legale necessaria. In particolare, è importante farsi assistere nella fase di negoziazione con creditori e tribunale, per evitare errori procedurali.
- Se l’azienda è grande, anche un esperto di comunicazione (come visto sopra) e, in caso di impatto sul territorio o sindacale, un professionista nelle relazioni industriali per rapportarsi con eventuali sindacati o istituzioni (in crisi rilevanti, può entrare in gioco la politica locale, tavoli di crisi presso il MISE, ecc.).
Tali figure, lavorando in sinergia, aiutano l’imprenditore a navigare nella crisi con metodo: analisi, piano, implementazione, negoziazione, monitoraggio. Il costo di questi consulenti può sembrare oneroso per un’azienda già in difficoltà, ma va visto come un investimento per salvare l’impresa. Spesso i professionisti accettano di modulare i compensi in parte sul successo del piano (success fee) o comunque di renderli prededucibili (cioè pagabili in prededuzione nelle procedure concorsuali, come spese della procedura) se formalizzati con le autorizzazioni del caso.
Un ultimo elemento è il coinvolgimento dei soci: se l’impresa ha soci oltre all’imprenditore, è fondamentale allinearli sulla strategia di risanamento. I soci potrebbero essere chiamati a sostenere finanziariamente l’azienda (ad es. attraverso una ricapitalizzazione o garantendo fideiussioni per nuovi fidi bancari). Inoltre, le soluzioni di ristrutturazione potrebbero incidere sui loro diritti (diluzione delle partecipazioni, ingresso di nuovi soci). Il nuovo Codice della Crisi prevede persino la formazione di classi di soci votanti nel concordato preventivo qualora il piano incida sulle loro partecipazioni. È dunque opportuno che i soci siano parte attiva del processo decisionale e comprendano che, per salvare l’azienda, potrebbe essere necessario un sacrificio anche da parte loro (in termini di controllo o di ulteriori investimenti).
Con queste premesse sulle mosse operative, possiamo ora entrare nel vivo delle strategie legali previste dall’ordinamento per gestire e risolvere la crisi d’impresa.
Strumenti Legali per la Risoluzione della Crisi
La legislazione italiana offre una gamma di strumenti – giudiziali e stragiudiziali – che l’impresa può utilizzare per regolare la propria crisi, evitando se possibile il fallimento disordinato. La scelta dello strumento dipende da vari fattori: la dimensione dell’impresa, l’entità e la tipologia del debito, il numero di creditori, se si punta a proseguire l’attività o a liquidare, la fattibilità del piano di risanamento, i tempi a disposizione e il livello di accordo dei creditori. Spesso, durante il percorso di risanamento, diversi strumenti possono combinarsi o susseguirsi (ad esempio: composizione negoziata iniziale, poi accesso a un concordato preventivo). Di seguito esaminiamo in dettaglio i principali strumenti legali, spiegandone il funzionamento, i vantaggi, gli svantaggi e in quali situazioni è indicato l’uno o l’altro.
Come Funziona Il Piano Attestato di Risanamento (Art. 56 CCII)
Il piano attestato di risanamento è lo strumento più snello e completamente stragiudiziale previsto dall’ordinamento. Consiste essenzialmente in un accordo privato tra l’imprenditore e i propri creditori, formalizzato in un piano di risanamento dell’impresa asseverato da un professionista indipendente (l’attestatore). Il piano deve avere contenuto idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e a garantire il riequilibrio della situazione finanziaria (art. 56). La peculiarità del piano attestato è che non prevede l’intervento del tribunale: non è necessaria omologazione o decreto di apertura. In altre parole, l’azienda e i creditori trovano un’intesa “in casa”, ma la legge offre a tale piano due protezioni fondamentali:
- La non assoggettabilità a revocatoria fallimentare degli atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione del piano, in caso poi l’azienda fallisca (venga assoggettata a liquidazione giudiziale). Ciò significa che, se io creditore accetto nel piano attestato di ricevere un pagamento parziale o dilazionato, o se la banca concede nuova finanza con garanzie, tali atti non potranno essere revocati dal curatore fallimentare come normalmente avverrebbe per atti a favore di creditori nei periodi sospetti. Questa è una forte rassicurazione per i creditori che collaborano al risanamento.
- L’esonero da responsabilità penale per l’imprenditore in relazione agli atti compiuti nel piano (in particolare riguardo al reato di bancarotta preferenziale per i pagamenti fatti in esecuzione del piano). In pratica, pagare un creditore piuttosto che un altro in attuazione del piano attestato non potrà essere perseguito come bancarotta preferenziale se poi si andasse in fallimento, in quanto coperto dall’esimente del piano attestato.
Il meccanismo è quindi: l’imprenditore, con l’aiuto dei consulenti, predispone un piano di risanamento (analogo come contenuti a quello descritto prima in termini di business plan e manovra finanziaria) e lo sottopone a un professionista indipendente (iscritto al registro dei revisori o figure assimilate) perché ne attesti sia la veridicità dei dati aziendali che la fattibilità. L’attestatore, dopo adeguata verifica, rilascia una relazione di attestazione. A questo punto, il piano – con l’attestazione allegata – viene sottoscritto dall’impresa e dai creditori coinvolti. Non c’è un numero minimo di creditori richiesto dalla legge (a differenza degli accordi di ristrutturazione); ovviamente, perché il piano funzioni, devono aderire tutti i principali creditori o comunque quelli la cui mancata adesione farebbe fallire il tentativo (basta un grande creditore che agisca aggressivamente per compromettere l’equilibrio).
Quando è indicato il piano attestato? Di solito nei casi in cui: (a) la crisi non è eccessivamente complessa, con un numero relativamente contenuto di creditori e magari concentrati (es. poche banche, qualche fornitore strategico) disposti a cooperare; (b) si vuole evitare a tutti i costi la pubblicità di una procedura concorsuale, per preservare l’immagine e i rapporti commerciali; (c) serve rapidità e flessibilità – il piano attestato può essere costruito su misura senza le rigidità del tribunale, e siglato in tempi rapidi; (d) l’azienda ha concrete prospettive di risanamento e non necessita di misure protettive immediate (perché attenzione: nel piano attestato non c’è automatic stay, i creditori non sono bloccati da iniziative esecutive se non per accordo). Quindi funziona se c’è un clima relativamente collaborativo o se comunque l’azienda non è bersaglio di azioni legali mentre negozia.
Vantaggi: riservatezza (il piano attestato non viene pubblicato ufficialmente), velocità, minima ingerenza esterna, costi contenuti (non ci sono spese di procedura o tribunale, solo il compenso dell’attestatore e dei consulenti), flessibilità nel contenuto del piano. Inoltre, come detto, garantisce ai creditori aderenti tutela su pagamenti/incassi avvenuti in esecuzione del piano (clausola di salvaguardia molto apprezzata). Un altro vantaggio è che il piano attestato può accompagnarsi ad altri atti societari utili al risanamento: fusioni, scissioni, aumenti di capitale, emissione di strumenti finanziari, ecc., il tutto deciso dall’organo amministrativo senza passare dall’assemblea (il Codice consente, in attuazione di un piano di risanamento, di bypassare i vincoli statutari come i diritti di opzione dei soci su aumenti di capitale, proprio per agevolare le operazioni straordinarie necessarie). I soci mantengono il diritto di essere informati e, se i loro diritti di partecipazione vengono alterati, di esprimersi in apposite classi di voto qualora poi si passasse a una procedura di concordato.
Svantaggi: l’assenza di una procedura formale significa anche mancanza di poteri coercitivi. Se anche un solo creditore rilevante non aderisce, questi può creare problemi (ad esempio avviando pignoramenti) e far saltare il piano. Non c’è la protezione del tribunale, se non eventualmente l’escamotage di depositare un ricorso “prenotativo” di concordato in bianco per congelare le azioni e poi tentare un piano attestato: ma in tal caso la riservatezza è persa. Dunque il piano attestato richiede consenso pressoché unanime tra i creditori principali. Altro limite: non vincola i creditori dissenzienti o estranei – a differenza di un concordato o accordo omologato che una volta approvati legano tutti. Infine, l’assenza di un giudice significa che il controllo di legalità è minore: bisogna prestare massima attenzione nella redazione del piano perché, se esso poi fallisce e l’azienda va in liquidazione giudiziale, l’attestatore e gli amministratori potrebbero essere chiamati a rispondere di attestazioni negligenti o eventualmente di condotte distrattive se il piano era fatto in malafede. Tuttavia, se predisposto correttamente, il piano attestato resta uno strumento efficace per crisi di media entità, ad esempio molte PMI l’hanno utilizzato con successo per rinegoziare il debito bancario e uscire dalla crisi senza passare per il tribunale.
Come Funzionano Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti (Artt. 57-64 CCII)
L’accordo di ristrutturazione dei debiti (spesso abbreviato in “182-bis” dal vecchio articolo della legge fallimentare) è una forma intermedia tra il piano puramente privato e il concordato preventivo. In sostanza, è un accordo negoziato con i creditori che però viene sottoposto all’omologazione del Tribunale, acquisendo così efficacia legale erga omnes in alcuni aspetti. Si può definire come un contratto di ristrutturazione con cui l’impresa e una parte significativa dei creditori concordano una certa ristrutturazione delle esposizioni (ad esempio: stralcio parziale dei crediti, moratorie, conversione di crediti in strumenti finanziari, ecc.), a fronte di un piano di risanamento dell’azienda. Per utilizzare questo strumento la legge richiede una soglia minima di consenso: i creditori aderenti all’accordo devono rappresentare almeno il 60% dei crediti totali dell’impresa (art. 60 CCII). Raggiunto tale livello di adesione, l’impresa può chiedere al tribunale l’omologazione dell’accordo. Il tribunale, verificati alcuni presupposti (regolarità della procedura, idoneità dell’accordo a assicurare il pagamento dei creditori estranei, attestazione positiva sulla fattibilità del piano da parte di un professionista) omologa l’accordo rendendolo efficace.
Caratteristiche principali:
- L’accordo vincola solo i creditori che vi hanno aderito. I creditori estranei (cioè che non hanno firmato) non sono coattivamente coinvolti, se non nei termini di legge: essi devono essere comunque integralmente pagati entro 120 giorni dall’omologazione (se già scaduti) o dalla scadenza (se non ancora scaduti) secondo quanto prevede l’art. 61 CCII. In pratica l’azienda nell’accordo deve prevedere come soddisferà al 100% i non aderenti, altrimenti non c’è omologazione. Questo garantisce i dissenzienti, ma limita anche l’efficacia dell’accordo – non si può imporre una riduzione a chi non è d’accordo, salvo eccezioni che vedremo.
- È necessaria l’attestazione di un esperto indipendente che dichiari che l’accordo è idoneo ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nei termini di legge e che i dati sono veritieri e il piano fattibile (art. 56 CCII richiamato).
- Con il deposito della domanda di omologazione, l’azienda può chiedere misure protettive analoghe al concordato (sospensione delle azioni esecutive dei creditori per il tempo necessario a perfezionare l’accordo e arrivare a omologazione).
- Una volta omologato dal tribunale, l’accordo acquista una forza particolare: i creditori aderenti (che rappresentano almeno il 60% del debito) e l’azienda sono vincolati nei termini pattuiti, ed eventuali azioni esecutive devono cessare secondo l’accordo. Per i creditori estranei, come detto, resta l’obbligo di soddisfarli per intero.
Vi sono alcune varianti introdotte dalle riforme recenti: ad esempio gli “accordi ad efficacia estesa” (art. 61, c.3 CCII) che permettono, in presenza di adesione del 75% dei crediti di una certa categoria omogenea (tipicamente finanziari), di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori finanziari dissenzienti della stessa categoria, purché siano stati informati e abbiano possibilità di aderire. Questa è una forma di cram-down settoriale pensata per superare resistenze di pochi istituti bancari quando la stragrande maggioranza concorda (è utile soprattutto per ristrutturazioni di debito bancario con molti istituti: se il 75% per valore accetta, il restante 25% viene trascinato alle stesse condizioni). Un’altra variante è l’accordo di ristrutturazione “agevolato” con percentuale ridotta di consensi (dal 30% in su) introdotto dal 2020 per facilitare alcune situazioni, ma soggetto a limitazioni (in pratica un pre-accordo da completare col tempo, poco utilizzato). Inoltre, esistono i “piani di ristrutturazione soggetti a omologazione” (PRO), strumento nuovo che condivide molti tratti con l’accordo di ristrutturazione ma con procedure più snelle e possibilità di coinvolgere tutte le classi di creditori con consenso unanime di classi (lo vedremo a parte).
Vantaggi degli accordi di ristrutturazione: rispetto al concordato, l’accordo è meno rigido: non serve raggiungere maggioranze di voto su classi in adunanza, basta raccogliere firme private del 60% dei crediti. Questo spesso è più facile perché ci si focalizza sui creditori principali. L’iter in tribunale per l’omologa è più semplice (non c’è il voto in tribunale, ma solo omologazione se tutto regolare). Inoltre, l’accordo può essere tenuto relativamente riservato fino all’omologa, evitando clamore (anche se l’istanza di omologa poi è pubblica). I tempi possono essere più rapidi di un concordato, perché non serve passare per tutto il procedimento di ammissione, adunanza, voto. Dal punto di vista dei creditori, l’accordo consente una trattativa più flessibile e mirata (si può negoziare individualmente con ciascun aderente condizioni ad hoc, finché poi tutti convergono – es. si può dare a una banca un piano diverso da un fornitore, cosa non possibile nel concordato dove devi trattare per classi omogenee). Il tribunale interviene solo alla fine, per convalidare. Inoltre, l’accordo di ristrutturazione può prevedere anche una contestuale transazione fiscale con l’Erario e gli Enti previdenziali (sostanzialmente un taglio o dilazione dei debiti tributari e contributivi), soggetta a regole particolari di adesione delle Agenzie fiscali (ne parliamo più avanti). La legge aggiornata consente persino l’omologazione forzosa contro il dissenso del Fisco in certi casi, per evitare che il diniego del Fisco, se il piano è conveniente, faccia saltare tutto.
Svantaggi/limiti: Serve comunque un consenso qualificato – se l’azienda ha una platea di creditori molto frammentata (es. tantissimi piccoli fornitori), raccogliere il 60% del passivo può essere complesso. Inoltre i creditori non aderenti, dovendo essere pagati integralmente, limitano la manovra: in pratica l’azienda deve assicurarsi risorse per pagare il 100% di quelli fuori accordo, il che spesso significa che i tagli di debito coinvolgono solo i creditori che hanno accettato volontariamente (tipicamente banche disponibili a rinunciare a quote di credito, mentre fornitori piccoli spesso stanno fuori e vanno saldati per intero). Questo può ridurre l’alleggerimento effettivo del debito. Per mitigare ciò, l’azienda può cercare di far aderire il più possibile anche i piccoli creditori, magari offrendo loro il pagamento accelerato di una percentuale (ma formalmente se aderiscono rientrano nel 60%). Altro limite: se la situazione peggiora, la procedura non tutela completamente da iniziative individuali prima dell’omologa (si possono chiedere misure protettive, ma queste hanno durata limitata e richiedono il deposito del piano e delle adesioni raggiunte, ex art. 54 CCII). È quindi uno strumento che funziona se c’è già un buon accordo di massima, non per iniziare ex novo con creditori ostili. Infine, come in ogni piano, serve l’attestazione di un professionista e la sostenibilità del piano – il tribunale può non omologare se ritiene che i creditori estranei non siano tutelati a sufficienza o se la documentazione è carente.
Quando usarlo: l’accordo di ristrutturazione è indicato per imprese che hanno pochi grandi creditori (es. prevalentemente banche, leasing, obbligazionisti) con cui possono raggiungere intese personalizzate, mentre hanno pochi creditori trade piccoli (che tanto verranno pagati comunque). È stato utilizzato spesso da aziende industriali di medie dimensioni con esposizioni bancarie importanti: le banche convertono parte dei crediti in strumenti partecipativi o tagliano interessi e allungano mutui, l’impresa così riduce l’onere del debito e può ripartire. Un uso tipico è anche come step intermedio: a volte un’azienda deposita un accordo di ristrutturazione per prendere tempo e bloccare le azioni, e poi lo converte in concordato se non riesce a ottenere tutte le firme richieste. Va notato infatti che accordo e concordato possono trasformarsi: se fallisce la raccolta firme l’azienda può ripiegare su un concordato preventivo e presentare un piano unilaterale ai creditori da votare.
Come Funziona La Composizione Negoziata della Crisi (Artt. 12-25 undecies CCII)
La Composizione Negoziata per la soluzione della crisi d’impresa è una novità assoluta introdotta nel 2021 e ora parte integrante del Codice della Crisi. Si tratta di una procedura volontaria, confidenziale e non giudiziale finalizzata ad aiutare le imprese in condizione di squilibrio a trovare un accordo con i creditori grazie all’ausilio di un esperto indipendente nominato dalla Camera di Commercio. La composizione negoziata (spesso abbreviata in CNC) rappresenta un tentativo di anticipare l’emersione della crisi in una fase in cui l’impresa ha ancora potenzialità di risanamento, evitando di farla entrare subito in procedure concorsuali formali.
Caratteristiche principali:
- Accesso volontario: L’imprenditore che “si accorge” di trovarsi in difficoltà economico-finanziaria, ma ritiene di avere possibilità di risanamento, può presentare istanza di nomina di un esperto tramite una piattaforma telematica nazionale (gestita dalle Camere di Commercio). Possono accedere alla CNC tutte le imprese, di qualsiasi dimensione e settore, purché non siano già insolventi in modo irreversibile (se l’insolvenza è conclamata e non c’è più prospettiva di risanamento, la CNC non è appropriata).
- Nomina dell’esperto indipendente: Entro 5 giorni dalla domanda, una commissione presso la CCIAA nomina un esperto scelto da un elenco nazionale (si tratta generalmente di commercialisti, avvocati o consulenti con specifica esperienza in ristrutturazioni). L’esperto è terzo e indipendente rispetto all’impresa e ai creditori, e il suo ruolo è facilitare le trattative e aiutare a individuare soluzioni di composizione della crisi. L’esperto fissa subito un incontro riservato con l’imprenditore per esaminare la situazione.
- Procedura riservata e stragiudiziale: La composizione negoziata si svolge in modo confidenziale: l’attivazione non viene iscritta nel registro imprese (a meno che l’imprenditore chieda misure protettive, in tal caso l’istanza di misure protettive è pubblicata). In questa fase, l’impresa continua ad operare sotto la guida dell’imprenditore stesso (non c’è spossessamento né organi concorsuali), con la differenza che l’esperto monitora e partecipa alle trattative.
- Trattative con i creditori: L’obiettivo è raggiungere un accordo con uno o più creditori per superare la crisi. L’esperto analizza la situazione economico-patrimoniale e aiuta l’imprenditore a predisporre un piano di risanamento sostenibile. Quindi l’esperto convoca i principali creditori a tavoli negoziali, cercando di far convergere le parti su soluzioni concordate. Le soluzioni possibili sono varie: si può arrivare alla firma di un contratto con alcuni creditori (anche di natura diversa, es. banche e fornitori insieme) che preveda ad esempio dilazioni, riduzioni di debito, nuova finanza, garanzie; oppure l’esperto può facilitare la ricerca di un investitore terzo; oppure ancora può emergere che la via migliore sia accedere poi a un concordato preventivo o accordo di ristrutturazione formale e l’esperto aiuta a preparare il terreno.
- Durata: La legge prevede un termine iniziale di 3 + 3 mesi per la composizione negoziata (tre mesi, prorogabili di ulteriori tre su valutazione dell’esperto). Dunque in totale circa 6 mesi di tempo per condurre le trattative. È un periodo relativamente breve, coerente con l’idea di intervenire presto e non restare troppo a lungo in incertezza.
- Esito: Alla fine delle trattative ci sono vari possibili esiti:
- Se si raggiunge un accordo soddisfacente con i creditori, l’impresa lo esegue e la procedura di composizione negoziata si conclude positivamente. A seconda dei casi, l’accordo potrebbe essere poi formalizzato in un contratto privato (se sono pochi creditori) oppure l’azienda può decidere di fare omologare tale accordo come accordo di ristrutturazione in tribunale (in tal caso si “trasforma” l’accordo in un 182-bis per dargli più forza). In alternativa, se l’accordo consiste in un piano di risanamento attestato, potrà restare riservato. In ogni caso, la guida dell’esperto termina.
- Se non si trova alcuna soluzione privata, l’imprenditore può scegliere di attivare un procedimento concorsuale ordinario: spesso la norma suggerisce come esito il concordato preventivo (anche in forma semplificata, vedi avanti), oppure la liquidazione giudiziale se ormai non c’è più nulla da fare. L’esperto nell’ultima relazione darà conto delle cause di mancato accordo e l’impresa deciderà il da farsi.
- È possibile anche un esito intermedio: ad esempio concludere un contratto di finanziamento o una moratoria temporanea con taluni creditori e uscire dalla CNC senza procedura concorsuale, perché magari quelle misure bastano a ristabilire l’equilibrio.
- Vantaggi della CNC:
Riservatezza: come detto, a meno di misure protettive richieste, la composizione negoziata non è di dominio pubblico, quindi l’immagine aziendale non viene intaccata. Ciò consente all’impresa di negoziare senza l’ombra dello “stigma da fallimento” che spesso accompagna i concordati pubblici.
Assistenza di un esperto super partes: l’esperto può proporre soluzioni creative e mediare conflitti. Non ha poteri decisori, ma la sua presenza spinge creditori e debitore a comportarsi in buona fede, sapendo che a fine procedura dovrà redigere una relazione finale.
Protezione legale su richiesta: l’imprenditore può chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive (stay) sul proprio patrimonio durante le trattative. In pratica, può ottenere che per la durata della CNC i creditori non possano iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari (pignoramenti, sequestri) e non possano acquisire diritti di prelazione se non concordati. Questo è fondamentale se ci sono creditori impazienti: blocca il gioco al “chi arriva primo prende tutto” e dà respiro all’azienda. Le misure protettive, concesse dal tribunale su parere dell’esperto, vengono iscritte al Registro Imprese (dando pubblicità limitata) e durano inizialmente fino a 4 mesi, prorogabili. Va detto che recenti modifiche (Correttivo 2023) hanno anche permesso di formulare proposte di transazione fiscale durante la CNC: l’impresa può proporre a Agenzia Entrate e Agenzia Riscossione un accordo di saldo o dilazione di tributi, il che prima non era possibile.
Flessibilità: la CNC non predetermina un esito univoco – non è vincolato a fare concordato o altro. È uno spazio di negoziazione in cui si può imbastire qualunque soluzione contrattuale che le parti ritengano. È persino possibile concordare l’intervento di terzi (ad esempio vendere l’azienda a un concorrente, soluzione che esula da un concordato tipico ma che può emergere in trattativa). Questa flessibilità consente soluzioni su misura, non schematiche.
Tempi rapidi e costi ridotti: la procedura in sé ha costi limitati (compenso dell’esperto determinato secondo norme ministeriali, spese vive). Non bisogna predisporre subito un complesso ricorso come per il concordato, si può iniziare con documentazione più snella e poi sviluppare il piano man mano. - Svantaggi/limiti della CNC:
Il principale limite è che non c’è garanzia di successo. Essendo volontaria, se i creditori non vogliono collaborare, la CNC può concludersi con un nulla di fatto. L’esperto non può obbligare nessuno a accettare proposte. Inoltre, la riservatezza cessa nel momento in cui si chiedono misure protettive, quindi se l’azienda ha necessità di proteggersi da subito, la notizia trapelerà (anche se con la formula “impresa X ha presentato istanza di composizione negoziata con misure protettive”). La durata limitata (6 mesi) impone di negoziare velocemente; per situazioni molto intricate può essere poco. Un potenziale rischio per l’imprenditore è che la procedura fallisca e i creditori, avendo appreso dettagli sulla crisi durante le trattative, assumano poi atteggiamenti ancor più duri (ad esempio un creditore che non aderisce, finita la CNC, potrebbe precipitarsi a pignorare avendo conferma che l’azienda è in crisi). Per questo è importante valutare bene chi coinvolgere e come. La legge prevede l’obbligo di riservatezza per i soggetti coinvolti, ma non elimina del tutto il rischio reputazionale se troppi attori vengono a sapere della crisi.
Un altro limite è che la CNC non risolve da sé: è un contenitore procedurale, ma la qualità del risultato dipende dalle proposte concrete che l’imprenditore mette sul tavolo. Se la situazione è quasi compromessa, la CNC servirà solo a prendere atto che va avviato il fallimento.
Quando e perché usarla: la Composizione Negoziata va considerata come prima mossa quando l’impresa inizia a scricchiolare ma ha ancora prospettive di salvataggio. Ad esempio, un’azienda con squilibri di liquidità temporanei, o colpita da eventi eccezionali (Covid, aumento costi) ma ancora competitiva sul mercato, può trovare nella CNC uno strumento ideale. Permette di sedersi con banche e fornitori in un contesto protetto e ragionare su soluzioni di medio termine, evitando nel frattempo di essere aggredita dai creditori. La CNC è stata pensata soprattutto per le PMI, spesso prive di accesso a costosi advisor e spaventate dal concordato: grazie alla guida dell’esperto, anche l’imprenditore medio-piccolo può districarsi. In due anni dalla sua introduzione, molti la stanno utilizzando proprio come passo iniziale: se funziona, ottimo; se no, almeno si arriva al concordato ben preparati. Vale il principio: tentare una soluzione negoziata, prima di arrendersi al tribunale. D’altronde il legislatore vuole che solo le crisi irrisolvibili vadano in liquidazione. Tempestività: la CNC va attivata prima di perdere completamente la fiducia dei creditori. Se si aspetta troppo, questi saranno già ostili.
Da notare infine che, qualora la CNC fallisca, l’imprenditore ha la possibilità di una uscita semplificata: proporre un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio. Questo è un istituto introdotto in via transitoria e poi stabilizzato, che consente – entro 60 giorni dalla chiusura infruttuosa della CNC – di depositare un piano di concordato “liquidatorio” senza dover passare per il voto dei creditori. In pratica, se la negoziazione non ha portato accordi, il debitore può comunque evitare il fallimento presentando al tribunale una proposta di concordato liquidatorio in cui offre ai creditori il ricavato della liquidazione dei propri beni, secondo stime di realizzo, e il tribunale può omologarlo anche senza l’approvazione dei creditori. È una sorta di exit strategy che incentiva a provare la CNC: male che vada, puoi ottenere un concordato “d’ufficio” per chiudere dignitosamente. Il concordato semplificato non è un autonomo strumento a richiesta libera – può avvenire solo come sbocco di una composizione negoziata non riuscita. Lo citiamo qui perché è parte integrante della logica della CNC.
In conclusione, la Composizione Negoziata è uno strumento prezioso per risanare aziende ancora vitali, con il vantaggio della riservatezza e della flessibilità. Richiede però impegno attivo dell’imprenditore e collaborazione delle controparti. “Tempestività, buona fede e apertura al dialogo” sono le parole chiave per sfruttarla al meglio.
Come Funziona Il Concordato Preventivo (Artt. 40-118 CCII)
Il concordato preventivo è probabilmente lo strumento concorsuale più conosciuto e rappresenta la tipica procedura giudiziale di risanamento o liquidazione alternativa al fallimento. Attraverso il concordato, l’imprenditore propone ai creditori un piano per regolare i debiti – ad esempio pagando una percentuale ridotta, oppure ristrutturando le scadenze – e tale piano, se approvato dalle maggioranze di legge e omologato dal tribunale, diventa vincolante per tutti i creditori anteriori, evitandogli gli effetti più gravosi di un fallimento. In altri termini, il concordato è un accordo collettivo di natura giudiziaria tra il debitore e i suoi creditori, mediato dal tribunale.
Nel nuovo Codice della Crisi, il concordato preventivo è stato rivisitato con l’obiettivo di favorire il più possibile la continuità aziendale e la soddisfazione dei creditori in misura non inferiore a quella ottenibile in caso di liquidazione fallimentare. Si parla infatti di concordato “in continuità” come fattispecie principale e concordato “liquidatorio” come eccezione.
Vediamo i punti salienti:
Tipologie di concordato:
- Concordato in continuità aziendale: quando nel piano concordatario è prevista la prosecuzione dell’attività d’impresa, sia pure eventualmente ristrutturata. La continuità può essere diretta (la stessa società debitrice continua l’attività durante e dopo il concordato) oppure indiretta (l’attività viene ceduta o conferita a un altro soggetto che la prosegue, ad es. affitto d’azienda con successiva vendita a un terzo, mantenendo i livelli produttivi e occupazionali) – entrambe le forme sono considerate concordato in continuità a tutti gli effetti. In questo caso, lo scopo principale è risanare l’impresa e permetterle di rientrare in bonis, pagando i creditori in modo graduale con i flussi di cassa futuri generati dalla continuità. Nel concordato in continuità spesso i creditori chirografari (non garantiti) accettano una riduzione parziale del credito (“falcidia”) in cambio della prospettiva di un miglior soddisfacimento rispetto alla chiusura immediata. La legge oggi valorizza molto questa soluzione, prevedendo ad esempio la possibilità di pagare i creditori privilegiati entro dilazioni più ampie (fino a 2 anni dall’omologazione per ipoteche e privilegi, prima era 1 anno), e stabilendo che la valutazione del tribunale sul piano in continuità si basi anche sul “valore eccedente la liquidazione” apportato dalla prosecuzione aziendale. In pratica, se l’azienda ha prospettive di generare X in più rispetto a quanto varrebbero i suoi asset liquidati oggi, quel surplus deve andare ai creditori e rendere il piano conveniente.
- Concordato liquidatorio: quando invece il piano prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio dell’impresa, ancorché in un contesto concorsuale ordinato e con eventualmente qualche beneficio per i creditori (es. l’apporto di nuove risorse esterne da destinare ai creditori, oppure una procedura di liquidazione più rapida e meno costosa del fallimento). Nel concordato liquidatorio tipicamente l’azienda cessa la sua attività; il piano consiste nel vendere beni, incassare crediti, e distribuire il ricavato ai creditori, magari in percentuale ridotta. La legge pone alcuni paletti: è ammissibile solo se ai creditori chirografari viene assicurato un pagamento di almeno il 20% del loro credito (soglia minima di soddisfacimento nel concordato liquidatorio, salvo che siano presenti contributi esterni che aumentano la percentuale). Questo per evitare concordati liquidatori “troppo penalizzanti” (se l’azienda valesse così poco da dare meno del 20%, tanto varrebbe il fallimento). Inoltre, il Codice della Crisi prevede che nel concordato liquidatorio ci sia obbligatoriamente un apporto di risorse esterne almeno pari al 10% dell’attivo liquidabile (art. 84, c.4 CCII) – tradotto, i soci o terzi devono mettere qualcosa in più che in fallimento non ci sarebbe, come condizione di ammissibilità. Questo per far sì che il concordato liquidatorio dia comunque un piccolo vantaggio ai creditori rispetto alla normale liquidazione fallimentare. Il concordato semplificato di cui parlavamo prima rientra in questa categoria, ma senza voto dei creditori.
Procedura di concordato in breve: l’impresa in crisi presenta ricorso al tribunale chiedendo l’ammissione al concordato e allegando la proposta ai creditori, il piano dettagliato e la relazione di un attestatore indipendente che certifichi veridicità e fattibilità (più eventuale attestazione di miglior soddisfacimento rispetto al fallimento). Il tribunale verifica i requisiti e ammette la società alla procedura nominandoun Commissario Giudiziale, che vigilerà sull’impresa (l’imprenditore di regola rimane in possesso dell’azienda durante il concordato, salvo casi di abuso). Da quel momento, i creditori non possono iniziare né proseguire azioni esecutive o cautelari: si attua la protezione del patrimonio. I creditori vengono informati del contenuto del piano e convocati a un’adunanza in cui discutere e poi esprimere il voto (oggi spesso il voto avviene per classi per corrispondenza, secondo regole aggiornate dal CCII). Per l’approvazione del concordato serve il voto favorevole dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto (maggioranza semplice >50% in valore, calcolata eventualmente per classi se presenti). Se ci sono diverse classi e qualcuna non approva, il tribunale può comunque omologare il concordato applicando criteri di “cram-down” interclassi, a condizione che il piano rispetti la priorità relativa (i creditori dissenzienti ottengono almeno quanto le classi di pari grado e più di quelle di grado inferiore, inclusi i soci). Questo è un concetto nuovo derivante dalla direttiva UE: in pratica i creditori possono essere divisi in classi omogenee e, se non tutti sono d’accordo, il giudice può imporre il concordato purché nessuna classe dissenziente sia trattata peggio di una equivalente e che i soci non ricevano valore prima che i creditori dissenzienti siano soddisfatti adeguatamente. Dopo l’approvazione (o anche in mancanza, come detto, con i presupposti di cram-down), il tribunale procede all’omologazione con decreto, che rende il piano efficace e vincolante per tutti. Nel concordato in continuità, l’impresa proseguirà l’attività secondo il piano sotto la sorveglianza di un Commissario (spesso lo stesso nominato prima, ora “giudice delegato” e un eventuale liquidatore giudiziale per cedere beni non strategici se previsti); nel concordato liquidatorio invece di solito con l’omologa l’azienda viene affidata a un Liquidatore nominato che eseguirà il piano di liquidazione dei beni e distribuzione.
Vantaggi del concordato preventivo:
– È uno strumento onnicomprensivo: coinvolge tutti i creditori (anche quelli che non votano o sono contrari, una volta omologato sono obbligati ad accettare quanto previsto) e può gestire in un’unica soluzione la ristrutturazione di tutta la posizione debitoria dell’impresa. È ideale quando si deve affrontare una crisi diffusa con molti creditori di varia natura.
– Offre piena protezione legale: dal momento del deposito della domanda (anche in bianco con riserva di presentare piano entro termini), la società è protetta dai creditori (automatic stay). Inoltre, i contratti in corso possono proseguire normalmente e alcuni patti contrari (tipo clausole di risoluzione in caso di concordato) sono resi inefficaci.
– Permette soluzioni anche senza unanimità: a differenza del piano attestato o accordo 182-bis, nel concordato basta la maggioranza. Ciò lo rende praticabile quando non c’è consenso generale ma serve comunque imporre una ristrutturazione. Ad esempio, se alcuni creditori minori sono irragionevoli, col concordato si può chiudere la partita anche senza il loro assenso, purché la maggioranza sia favorevole e il piano equo.
– In caso di concordato in continuità, l’azienda può continuare a operare, mantenendo posti di lavoro e valore produttivo (la legge anzi incoraggia la continuità come strumento per massimizzare il soddisfacimento creditori).
– Per l’imprenditore, se persona fisica, il concordato offre la possibilità di esdebitazione una volta eseguito (analoga a quella post-fallimento), mentre per la società è la salvezza dall’azzeramento.
– Aspetti fiscali: la legge considera i crediti cancellati in concordato come perdite su crediti per i creditori (deducibili fiscalmente) e, lato debitore, eventuali riduzioni di debito non generano tasse (non sono sopravvenienze tassabili se omologate).
Svantaggi/criticità del concordato:
– Procedura complessa e costosa: richiede una mole documentale notevole (piano dettagliato, attestazioni, inventari), l’intervento di diversi organi (commissario, giudice delegato, ecc.) e può durare parecchi mesi (da 6 mesi a oltre 1-2 anni nei casi con molte contestazioni). I costi professionali e di giustizia non sono trascurabili. Questo per una piccola impresa può essere scoraggiante.
– Pubblicità negativa: l’apertura di un concordato è pubblica e spesso comunicata al mercato. Questo può portare a perdita di fiducia di fornitori e clienti durante la procedura. Non tutte le aziende reggono questo “marchio” temporaneo (ad es. un negozio al dettaglio in concordato vedrebbe i fornitori bloccare le consegne).
– Rigidità legali: il concordato è regolato da norme stringenti su classi, priorità di pagamento, trattamento dei creditori privilegiati, ecc. La libertà dell’imprenditore è limitata; inoltre l’impresa è di fatto sotto controllo del tribunale e del commissario, che supervisionano ogni atto di gestione straordinaria. Ciò può rendere più lenta l’operatività.
– Rischio di insuccesso: se i creditori non approvano il piano, il tribunale dichiarerà il fallimento (liquidazione giudiziale). Anche dopo l’omologa, se l’azienda non riesce a rispettare gli impegni presi (pagamenti, ecc.), si rischia la risoluzione del concordato e il fallimento successivo. Quindi c’è una “posta in gioco” alta: l’azienda deve essere abbastanza solida da reggere anche il piano concordatario.
– Diluzione dei tempi di pagamento: per i creditori, il concordato significa solitamente incassare in ritardo e in parte. Alcuni creditori (specie i piccoli fornitori) a volte preferirebbero pignorare subito qualcosa che aspettare anni per un 30%. Per questo potrebbero opporsi e rendere difficoltosa la procedura con azioni legali (anche se poi vengono bloccati, trovano magari appigli per insinuare contestazioni).
Novità del CCII sul concordato: il nuovo Codice ha introdotto alcuni cambiamenti di cui tener conto: obbligo di classi per creditori con differente posizione giuridica o interessi (quindi i creditori vanno raggruppati in classi omogenee più spesso di prima, e votano per classi), la già citata regola di priorità relativa per l’omologazione non unanime (che consente di superare il dissenso di classi minoritarie rispettando certi criteri di fairness), la partecipazione eventuale dei soci in classe se i loro diritti sono toccati (ad esempio se il piano prevede un aumento di capitale con dilution, i soci votano anch’essi in una classe separata sul piano), l’estensione della moratoria sui creditori privilegiati (pagabili fino a 2 anni dopo omologa se il concordato è in continuità, purché interessi contrattuali), la possibilità di presentare un concordato di gruppo per più società dello stesso gruppo, con proposte coordinate. Inoltre, è stato chiarito e ampliato il meccanismo di cram-down fiscale: se il Fisco o enti previdenziali rifiutano il piano senza motivo e questo garantisce loro almeno il 20% (o percentuali elevate in caso di continuità) e comunque non meno di quanto avrebbero da fallimento, il tribunale può omologare ugualmente forzando il loro dissenso. Ci sono anche incentivi alla finanza esterna: i finanziamenti durante il concordato autorizzati dal giudice sono prededucibili, cioè saranno pagati prima di altri debiti in caso di successivo fallimento.
Quando usare il concordato preventivo: è lo strumento di elezione quando l’impresa è gravemente indebitata con molti creditori e non riesce a ottenere un accordo extragiudiziale ampio. Se la composizione negoziata o il piano attestato falliscono, il concordato diventa la strada maestra per evitare il fallimento puro. Un concordato in continuità è consigliabile se c’è uno spessore industriale da salvare – ad esempio un’azienda con know-how, mercati e possibilità di tornare redditizia liberandosi di una parte dei debiti. Permette di tagliare i debiti chirografari e postergare i privilegiati, dando ossigeno. I creditori in genere preferiscono un concordato in continuità (prendono magari il 40% ma l’azienda prosegue, continuando a essere cliente/fornitore) piuttosto che un fallimento con recupero incerto. Un concordato liquidatorio, invece, ha senso quando l’azienda non è più vitale come business ma ha dei beni da liquidare: in tal caso, se si riesce a vendere meglio in concordato (magari con un pre-accordo con un acquirente per l’azienda intera, che in fallimento avrebbe meno garanzie), i creditori possono recuperare di più. Il concordato liquidatorio spesso è usato anche per evitare implicazioni penali e gestire la liquidazione in modo più controllato: i creditori hanno voce e trasparenza, e l’imprenditore può ottenere l’esdebitazione con più facilità.
In pratica, molte grandi crisi aziendali in Italia passano dal concordato preventivo: casi noti (Alitalia 2008, Parmalat prima del commissariamento speciale, ecc.) hanno utilizzato concordati in continuità. Anche numerose PMI lo utilizzano se il debito è ingestibile diversamente. È, per così dire, l’ultima spiaggia per ristrutturare evitando la fine, quando le strade negoziali minori sono impraticabili.
Quali sono gli strumenti a disposizione per le Imprese Minori e il Sovraindebitamento
Non tutte le imprese possono accedere alle procedure concorsuali ordinarie come il concordato preventivo o la liquidazione giudiziale. In Italia esiste una distinzione tra imprenditori “fallibili” e “non fallibili”. Sono soggetti a fallimento (liquidazione giudiziale) solo gli imprenditori commerciali (non i professionisti, non gli enti non profit, non gli agricoltori) che superano certe soglie dimensionali tali da non essere considerati “piccoli imprenditori”. Il Codice della Crisi all’art. 121 definisce le “imprese minori” (quelle sotto soglia) come quelle che nei tre esercizi precedenti non superano congiuntamente: 300.000 euro di attivo patrimoniale, 200.000 euro di ricavi annui, e 500.000 euro di debiti. Se un’impresa rientra in questi limiti (ad esempio un artigiano o un commerciante di piccole dimensioni), non può essere soggetta a liquidazione giudiziale; analogamente, un professionista o un consumatore sovraindebitato non può “fallire” in senso tecnico. Ciò non significa però che non abbia strumenti: esiste la disciplina del sovraindebitamento, ora integrata nel CCII, che offre procedure di regolazione anche a questi soggetti. In pratica, il Codice prevede procedure parallele semplificate e calibrate per micro-imprese e persone fisiche:
- Concordato Minore: è l’equivalente del concordato preventivo ma riservato ai debitori minori non fallibili (piccoli imprenditori sotto soglia, start-up innovative se escluse dal fallimento, associazioni non commerciali con debiti, ecc.). Funziona in modo simile al concordato: il debitore propone ai creditori un piano di ristrutturazione o liquidazione del debito, che deve garantire il pagamento di almeno il 20% dei chirografari (salvo casi di liquidazione patrimonio del tutto incapiente) e può prevedere la continuità o la liquidazione. Il concordato minore richiede l’approvazione dei creditori con maggioranza (qui contano tutti i creditori perché di norma non tantissimi). Omologato dal tribunale, vincola tutti i creditori. Rispetto al concordato normale, le formalità sono ridotte e di solito il ruolo dell’Organismo di Composizione della Crisi (OCC) è centrale: c’è spesso un gestore nominato dall’OCC (organismi istituiti per sovraindebitamento) che aiuta il debitore a predisporre il piano e verifica le condizioni. Il concordato minore è pensato per microimprese che vogliano evitare la liquidazione pura e offrire qualcosa ai creditori in un piano sostenibile.
- Piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore: è lo strumento dedicato alle persone fisiche che hanno debiti principalmente personali (non derivanti da attività d’impresa). Ad esempio un individuo che ha accumulato debiti con banche, fisco, fornitori per ragioni non imprenditoriali. Questo piano, erede del “piano del consumatore” della legge 3/2012, non richiede il voto dei creditori: il debitore presenta un piano di pagamento parziale dei debiti, dimostrando di mettere a disposizione tutte le risorse disponibili eccetto il minimo per vivere, e il tribunale può omologarlo se lo ritiene fattibile e se il debitore ha tenuto un comportamento meritevole (cioè non ha colpe gravi nell’aver contratto i debiti, valutazione di meritevolezza). I creditori possono essere sentiti ma non votano; se il giudice ritiene equo il piano, lo impone loro. Questa è una differenza notevole e tutela il consumatore sovraindebitato onesto che vuole uscire dai debiti dando il possibile ma non il 100%. Anche questo vede l’assistenza di un OCC nella predisposizione.
- Liquidazione Controllata del Sovraindebitato: è l’analogo del fallimento per i debitori non fallibili. Se un piccolo imprenditore o una persona fisica sommersa dai debiti non è in grado di proporre un piano o un concordato minore, può attivare (o subire su istanza dei creditori) una procedura di liquidazione controllata. Un liquidatore nominato dal tribunale liquiderà i beni del debitore e ripartirà il ricavato tra i creditori. La differenza dal fallimento sta in iter semplificati e nel fatto che dopo la chiusura il debitore persona fisica ha accesso all’esdebitazione (liberazione dai debiti residui). La legge anzi prevede che la liquidazione controllata duri al massimo 3 anni: questo per dare una prospettiva temporale certa, dopodiché il debitore potrà ripartire pulito. Inoltre, a differenza di prima, l’esdebitazione post-liquidazione per sovraindebitamento è automatica: non serve una domanda separata, decorso il termine la liberazione dai debiti residui scatta di diritto (salvo revoca se emerse frodi). Ciò incentiva il debitore collaborativo a mettere tutto in liquidazione sapendo di ottenere poi il fresh start.
- Esdebitazione del debitore incapiente: questa è un’ul*… segue:*
L’esdebitazione del debitore incapiente è una misura di favore introdotta di recente: un debitore persona fisica meritevole che abbia zero beni liquidabili può chiedere la cancellazione di tutti i debiti residui senza dare nulla ai creditori, ottenendo un esdebitazione immediata. È una sorta di “fresh start” per chi è totalmente incapiente, concessa una sola volta nella vita e revocabile se nei 4 anni successivi il debitore acquisisce disponibilità rilevanti (in tal caso deve destinarle ai vecchi creditori). Questa misura – estrema – è riservata a chi si trova in completa indigenza dopo aver comunque tentato soluzioni di composizione.
In sintesi, le procedure di sovraindebitamento offrono anche alle micro-imprese e alle persone fisiche la possibilità di liberarsi dai debiti e ripartire, previa messa a disposizione del proprio patrimonio (quando c’è) o di un piano di pagamento proporzionato alle capacità. Il Codice della Crisi ha reso tali procedure più accessibili, rapide (liquidazione max 3 anni) e orientate al sollievo finale del debitore onesto (esdebitazione automatica).
Come funziona la gestione dei Debiti Fiscali e Contributivi in Crisi (Transazione Fiscale)
Un capitolo cruciale per molte imprese in crisi riguarda i debiti verso il Fisco e gli Enti previdenziali (IVA, imposte, contributi INPS, premi INAIL, etc.). Spesso l’erario è tra i principali creditori e, in passato, le norme rigide impedivano di falcidiare imposte e contributi (si potevano solo dilazionare interessi e sanzioni). Oggi, grazie alle riforme, esiste la cosiddetta transazione fiscale e contributiva, che consente di includere nei piani di risanamento proposte di pagamento parziale e/o rateizzato di tali debiti. In concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione, il debitore può proporre all’Agenzia delle Entrate e agli enti previdenziali di soddisfare i loro crediti in misura ridotta (o oltre i termini ordinari), allegando un’attestazione indipendente che dimostri che la proposta è almeno pari a quanto tali enti otterrebbero in caso di fallimento. Le agenzie fiscali hanno facoltà di aderire entro 90 giorni. Se rifiutano ma la proposta garantiva comunque il massimo ottenibile, la legge consente al tribunale di omologare il concordato nonostante il diniego (il cosiddetto cram-down fiscale) al ricorrere di condizioni rigorose – ad esempio, negli accordi di ristrutturazione in continuità è richiesto che almeno il 25% degli altri crediti aderisca e che la transazione offra al Fisco almeno il 50% di quanto dovuto. Questo meccanismo, perfezionato dal Correttivo-ter 2024, evita che un creditore pubblico “dominante” possa da solo far fallire un tentativo di risanamento serio.
La transazione fiscale è dunque uno strumento chiave: permette di ridurre il carico fiscale che grava sull’azienda in crisi, rendendo sostenibile il piano. Ad esempio, un’azienda potrebbe proporre di pagare il 50% dell’IVA e contributi arretrati in 5 anni invece che il 100% subito – se in fallimento l’Erario prenderebbe zero, tale proposta ha senso e può essere approvata. Resta escluso solo ciò che la legge non consente di falcidiare (alcune risorse UE o ritenute previdenziali non versate, che tuttavia si possono rateizzare). Dal 2024, come accennato, persino nella composizione negoziata è ora possibile intavolare una transazione fiscale prima di accedere al concordato, facendola scattare se poi si formalizza un accordo o un concordato sulla base della proposta.
Per l’imprenditore, gestire bene i debiti fiscali è essenziale: durante la crisi è importante evitare nuovo arretrato (ad esempio versare regolarmente l’IVA corrente, se possibile, per non aggravare la posizione) e inserire nel piano una soluzione sostenibile per gli arretrati. L’Agenzia delle Entrate negli ultimi anni si mostra più propensa ad accettare transazioni ragionevoli, preferendo incassare qualcosa in concordato che poco o nulla dal fallimento . Best practice in questo ambito: dialogare con l’Erario con trasparenza, fornendo tutti i dati per far comprendere che l’offerta è il massimo realistico (spesso serve allegare una relazione molto dettagliata di convenienza della proposta rispetto alla liquidazione). In caso di esito positivo, la transazione fiscale omologata ha effetto di legge e vincola l’agente della riscossione a ricalcolare il debito secondo l’accordo.
Strategie Specifiche di Gestione Della Crisi per Tipologia di Impresa
La gestione di una crisi va tarata anche in base alla natura e dimensione dell’impresa. Un piano efficace per una piccola impresa artigiana potrebbe non esserlo per una multinazionale, e viceversa. Esaminiamo alcune peculiarità:
- Piccole e Medie Imprese (PMI): Le PMI spesso hanno strutture manageriali meno articolate e un rapporto più personale con dipendenti, fornitori e banche. Ciò può essere un vantaggio in crisi – è più facile negoziare soluzioni “informali” grazie alla fiducia costruita (es. il fornitore storico è più paziente col piccolo imprenditore con cui lavora da anni). D’altro canto, le PMI tendono a reagire tardi e a non avere sistemi di controllo evoluti. Strategie: per le PMI è fondamentale rivolgersi presto ai professionisti (commercialista, consulente) per farsi aiutare a impostare un risanamento; sfruttare la Composizione Negoziata come strumento relativamente snello per ottenere assistenza di un esperto; cercare accordi stragiudiziali se possibile (piani attestati) per evitare i costi di un concordato. Le PMI familiari devono valutare l’eventualità di una ricapitalizzazione da parte dei soci/familiari stessi: spesso l’immissione di liquidità dai proprietari può risolvere crisi non troppo profonde. Attenzione però a non confondere il patrimonio familiare con quello aziendale in modo improprio – eventuali nuovi apporti vanno fatti in modo trasparente (meglio se a titolo di finanziamento prededucibile autorizzato). In sintesi, la PMI dovrebbe puntare su flessibilità e rapporti personali: ad esempio, rinegoziare i fidi con la banca locale presentando un credibile piano di rilancio, oppure concordare con alcuni fornitori chiave la fornitura in continuità a fronte di pagamento del pregresso in più rate.
- Grandi Aziende e Gruppi Societari: Le imprese di maggiori dimensioni hanno struttura organizzativa complessa, molte classi di creditori (banche, obbligazionisti, fornitori internazionali, dipendenti numerosi) e spesso rilevanza sociale (occupazionale) sul territorio. Hanno però accesso a risorse che le PMI non hanno: possono assumere advisor di prestigio, ottenere finanziamenti ponte da fondi specializzati (debtor-in-possession financing), e talvolta rientrare in procedure speciali (come l’Amministrazione Straordinaria per aziende sopra 500 dipendenti, al di fuori del CCII). Strategie: per le grandi aziende la chiave è spesso la ristrutturazione del debito finanziario: va studiata una manovra con le banche e gli investitori istituzionali (ad es. emissione di nuovi strumenti, conversione di bond in equity, accordi ex art. 57 CCII con efficacia estesa, ecc.). Si utilizzano frequentemente gli accordi di ristrutturazione o i piani di ristrutturazione omologati (PRO) perché consentono di gestire classi di creditori omogenei senza passare dalla lentezza del voto in assemblea. Le grandi imprese in crisi tendono a presentare piani industriali di discontinuità: cambi radicali nel modello di business, cessione di rami d’azienda non core, chiusura di stabilimenti meno efficienti per concentrare la produzione altrove, talvolta split societari (good company / bad company) per isolare i debiti. Queste operazioni complesse beneficiano delle norme del CCII che neutralizzano clausole di change of control o simili nei contratti. Inoltre, una grande azienda può avere il supporto delle istituzioni: tavoli ministeriali, coinvolgimento di investitori pubblici (CDP, Invitalia) in equity. Best practice in grandi crisi è comunicare con trasparenza a tutti gli stakeholder (anche tramite i media) per mantenere consenso sulle soluzioni proposte e, se l’azienda è strategica, ottenere misure di sostegno (ad es. moratorie fiscali temporanee per dare agio al piano). Va considerato anche l’aspetto gruppo: se la crisi coinvolge più società affiliate, conviene usare le procedure di concordato di gruppo o accordi di gruppo per una soluzione coordinata, evitando che il default di una trascini le altre.
- Startup e Nuove Imprese: Le startup innovative hanno dinamiche diverse: di solito poche passività (molto equity dei soci e pochi debiti finanziari), ma problemi di liquidità legati a ricavi insufficienti. La “crisi” di una startup spesso coincide con il mancato raggiungimento di obiettivi che portano nuovi investitori (runway esaurita). Strategie: in molti casi, la via d’uscita è un rescue financing: trovare nuovi soci o partner industriali disposti a investire per pivotare il modello di business. Legalmente, raramente si arriva a concordati, perché se la startup non ha debiti rilevanti la si liquida semplicemente, mentre se ha debiti ma anche potenziale, probabilmente un investitore li rileva. Tuttavia, se una startup accumula debiti (es. verso fornitori tecnologici, affitti di coworking, anticipi di clienti su ordini non evasi) e non trova capitali, può utilizzare le procedure minori: se è società di capitali non fallibile, ricorre al concordato minore o alla liquidazione controllata. Una startup può anche optare per una cessione degli asset (brevetti, software) a un competitor e poi chiudere: in tal caso conviene farlo in modo ordinato, eventualmente tramite un accordo di ristrutturazione per liberarsi di eventuali garanzie personali dei founder. Best practice per startup è di non accumulare debiti ingenti: meglio ridurre il team o le spese presto e cercare M&A (acqui-hire) piuttosto che trascinare la società nell’insolvenza legale. Se però succede, la presenza di strumenti come l’esdebitazione offre ai giovani imprenditori la possibilità di riprovarci in futuro senza essere schiacciati dai debiti passati.
- Microimprese Individuali: Il piccolo commerciante, l’artigiano sotto soglia, l’agricoltore o il professionista in crisi rientrano nel sovraindebitamento. Strategie: qui il ruolo centrale è degli Organismi di Composizione della Crisi (OCC) diffusi sul territorio (presso Ordini professionali o Camere di Commercio), dove rivolgersi per attivare un piano del consumatore o un concordato minore. Spesso per queste figure la causa del dissesto è anche legata a garanzie personali prestate (fideiussioni) o debiti personali misti a quelli dell’attività. Va quindi fatto un quadro completo del debito complessivo familiare. Fortunatamente, l’approccio della legge è molto protettivo: se il piccolo imprenditore ha agito onestamente, potrà liberarsi dei debiti residui dopo aver dato quello che poteva. Occorre però evitare atti che pregiudicano i creditori (ad es. vendere beni personali per far sparire il ricavato): la meritevolezza è fondamentale. Una microimpresa spesso non potrà continuare l’attività durante la procedura se non con l’accordo dei creditori, ma per esempio un artigiano potrebbe proporre un piano mantenendo la bottega aperta (continuità) e pagando i debiti con i profitti futuri in parte.
Esempi e Best Practices di Gestione Della Crisi D’Impresa per Settori Diversi
Ogni settore economico presenta sfide specifiche in caso di crisi, e ci sono strategie settoriali collaudate per affrontarle:
- Settore Industriale/Manifatturiero: le aziende industriali (fabbriche, imprese manifatturiere) hanno tipicamente alti costi fissi (impianti, macchinari, personale numeroso) e subiscono la ciclicità della domanda. Una crisi industriale spesso deriva da calo di ordini o aumento dei costi delle materie prime. Best practices: implementare immediatamente un piano di efficientamento produttivo: ridurre la capacità in eccesso (chiudere linee produttive non utilizzate), fare manutenzione straordinaria per aumentare l’efficienza delle linee rimanenti, rinegoziare i contratti di fornitura di materia prima (magari cercando fornitori alternativi a minor costo, anche internazionali). Se il mercato del prodotto è in contrazione, valutare di diversificare la produzione riconvertendo impianti verso prodotti affini ancora richiesti. Ad esempio, un’azienda metalmeccanica in crisi per calo dell’automotive potrebbe riconvertire parte dell’impianto per produrre componenti per energie rinnovabili, se c’è domanda. Dal lato finanziario, l’industria in crisi può cercare un partner industriale – magari un concorrente più grande interessato ad acquisirla (in tutto o in parte) – presentando la continuità come vantaggio (garantisce produzione e consegne). Spesso nelle crisi industriali di una certa dimensione si ricorre a concordati in continuità indiretta: l’azienda viene affittata durante il concordato a un soggetto terzo che la gestisce e poi la acquista all’omologa, assicurando la continuità e portando cassa per pagare i creditori. Ad esempio, il concordato della società X prevede che l’impresa Y affitti l’azienda di X mantenendo operativi gli impianti; all’omologazione Y corrisponde un prezzo che va ai creditori e diventa il nuovo proprietario. Questa formula salvaguarda i posti di lavoro e soddisfa i creditori meglio della chiusura. Comunicazione nel settore industriale: va curata verso le maestranze e i sindacati. Coinvolgere i rappresentanti dei lavoratori nel piano di risanamento è prassi virtuosa, perché può evitare scioperi e assicurare la produttività durante la procedura. Ad esempio, concordare con il sindacato un contratto di solidarietà (riduzione orario) durante il concordato può ridurre i costi del lavoro e al contempo far sentire i lavoratori parte della soluzione. Caso esemplare: un’azienda tessile in crisi può chiudere i reparti meno richiesti (es. tessuti acrilici) e concentrare risorse su quelli di alta qualità (es. tessuti tecnici innovativi), vendendo macchinari obsoleti, licenziando il personale in esubero con incentivi all’esodo e investendo i (pochi) soldi disponibili in ricerca su nuovi materiali: con tali mosse e un accordo di ristrutturazione con le banche per tagliare i debiti, l’azienda può tornare competitiva.
- Settore Commercio e Distribuzione (Retail): crisi frequenti nel commercio al dettaglio derivano da cambiamenti nelle abitudini (e-commerce) o sovraespansione (troppi punti vendita). Le imprese retail hanno margini stretti e pochi asset tangibili (a parte le merci in magazzino). Best practices: adottare un piano di razionalizzazione della rete: chiudere i negozi non profittevoli (anche se doloroso, è necessario tagliare i rami secchi), concentrare l’attività sui punti vendita con vendite/mq migliori. Rinegoziare i canoni di affitto dei locali è spesso cruciale – molti locatori in zona commerciale preferiscono accettare un affitto ridotto piuttosto che ritrovarsi il negozio sfitto, quindi presentare un piano di rilancio ai proprietari (magari offrendo una percentuale sulle vendite oltre un certo livello) può portare a riduzioni significative dei costi fissi di locazione. Parallelamente, smaltire le rimanenze di magazzino è vitale per fare cassa: organizzare vendite promozionali mirate, outlet temporanei, o accordi con piattaforme online per vendere stock invenduti, consente di recuperare liquidità. Attenzione però all’immagine: un saldo totale indiscriminato potrebbe far pensare a una svendita di fine attività e allontanare i clienti fidelizzati; meglio comunicare come “vendita straordinaria per rinnovo assortimento” per non minare la fiducia. Un’altra strategia è integrare i canali di vendita: se l’azienda ha trascurato l’online, investire subito nell’e-commerce (anche appoggiandosi a marketplace esistenti) per ampliare il bacino di clienti e convertire scorte in denaro. Dal lato dei creditori, nel retail troviamo molti fornitori (brand forniti, grossisti) e magari banche per gli affidamenti di cassa: conviene cercare un accordo quadro con i fornitori, magari un concordato in continuità in cui si propone di pagarli in percentuale ma mantenere i rapporti per forniture future – molti fornitori preferiscono continuare a vendere alla catena, se vedono un piano serio, accettando un taglio sul pregresso pur di non perdere il cliente. Esempio pratico: una catena di negozi di elettronica in crisi può presentare un concordato in continuità offrendo ai fornitori il 30% dei crediti pregressi, ma contestualmente impegnandosi ad acquisti futuri con loro per almeno X euro all’anno (un invito a restare partner). Se il piano è credibile (magari perché la catena chiude le filiali in perdita e resta solo nelle città dove ha volumi sufficienti), i fornitori potrebbero votare sì perché intravedono la possibilità di riguadagnare in futuro ciò che oggi tagliano. Comunicazione nel commercio: va rivolta ai clienti finali. Bisogna rassicurarli che l’azienda continua l’attività (specialmente se c’è un sito e-commerce, mantenere aggiornato con un Q&A: “siamo in fase di ristrutturazione ma i nostri store restano aperti e gli ordini online saranno evasi regolarmente”). Importante anche gestire eventuali gift card o buoni in circolazione: spesso nelle crisi retail i consumatori temono di perdere i buoni non utilizzati – includere nel piano una clausola per onorarli (magari in parte) è utile per la reputazione.
- Settore Servizi: le imprese di servizi (società di consulenza, software house, agenzie di comunicazione, servizi alle imprese, trasporti, ecc.) hanno come asset principale le risorse umane e le competenze. La crisi in un’azienda di servizi spesso deriva da calo di commesse o da costi fissi di struttura troppo elevati rispetto ai ricavi (es. troppi dipendenti benché specializzati, o sedi lussuose). Best practices: attuare una riduzione dell’organico e riorganizzazione del lavoro calibrata: identificare le aree o i progetti non redditizi e purtroppo procedere con tagli del personale in quei settori, cercando però di trattenere gli elementi chiave che generano business. Ad esempio, una società di ingegneria in crisi per mancanza di cantieri potrebbe ridurre il personale amministrativo e commerciale in eccesso, ma tenere i progettisti migliori, magari negoziando con loro il passaggio a una struttura societaria diversa (es. diventano consulenti esterni con contratti flessibili) finché la situazione migliora. Ridurre i costi fissi: passare a uffici più piccoli o lavoro in remoto per abbattere affitti e utenze, vendere eventuali attrezzature o veicoli non utilizzati. Nei servizi, innovare l’offerta può salvare l’azienda: introdurre nuovi servizi complementari richiesti dal mercato. Un esempio: un’agenzia pubblicitaria tradizionale in difficoltà potrebbe riconvertirsi offrendo servizi digital/social che prima non aveva, formando i dipendenti o assumendo figure ad hoc (anche mentre licenzia i profili meno richiesti). Questo può aprire nuove linee di ricavo. Dal lato creditori, nelle aziende di servizi spesso il Fisco e le banche sono i maggiori creditori (tasse su salari non versate, debiti bancari per anticipo fatture). È essenziale qui la transazione fiscale e, se c’è leasing auto o apparecchiature, rinegoziare i contratti di leasing (talvolta restituendo i beni per risolvere il contratto). Caso esemplificativo: una piccola società di trasporti su gomma con 10 camion in leasing e calo di lavoro può ridurre la flotta restituiendo 5 camion al lessor (accordandosi per pagare una penale minima in concordato) e concentrare l’attività su rotte più redditizie, subappaltando eventuali extra a terzi: in questo modo taglia costi (carburante, autisti, leasing) e resta attiva su scala minore ma sostenibile. Comunicazione nei servizi: è rivolta ai clienti corporate che potrebbero temere un’interruzione del servizio (pensiamo a un’azienda IT che gestisce server per clienti: se entra in concordato, i clienti potrebbero scappare per paura di black-out). Bisogna contattarli individualmente, spiegare il piano e magari offrire condizioni migliorative temporanee (sconto) come gesto di fidelizzazione durante la ristrutturazione, garantendo che i servizi saranno continuati regolarmente (magari nominando un team dedicato che segua i clienti critici, per dimostrare affidabilità).
Ovviamente, ogni caso di crisi aziendale ha le sue particolarità. Tuttavia, questi esempi mostrano come applicare in concreto i principi generali: riduzione dei costi, focus sul core business, accordi con stakeholder chiave, uso creativo degli strumenti legali, e comunicazione efficace. Le best practice settoriali derivano dall’esperienza: imparare dai casi di successo (e insuccesso) nel proprio settore è molto utile per evitare errori noti e adottare strategie che hanno funzionato in situazioni analoghe.
Conclusioni: Come uscire da una crisi di impresa
Uscire da una crisi di impresa è una sfida multidimensionale che richiede tempestività, competenza e determinazione. Abbiamo visto come il quadro normativo italiano metta oggi a disposizione un ventaglio di strumenti legali articolati e moderni, che vanno dalla prevenzione (allerta interna, composizione assistita) alle soluzioni negoziali (piani attestati, accordi di ristrutturazione, transazioni fiscali) fino alle procedure concorsuali classiche (concordati, liquidazioni), senza dimenticare le tutele per le piccolissime realtà. La scelta dello strumento giusto e la sua corretta attuazione possono fare la differenza tra un’azienda che risorge e una che soccombe.
Al di là degli aspetti legali, è emerso con forza che la componente pratico-gestionale è altrettanto determinante: un piano di risanamento deve poggiare su solide basi industriali e finanziarie. Tagliare i rami secchi, innovare il modello di business, ricostruire la fiducia con dipendenti e creditori, sono passi indispensabili. Il diritto offre la cornice e gli attrezzi (protezione dai creditori, possibilità di ridurre i debiti in modo concordato, ecc.), ma l’imprenditore e il suo team devono metterci la visione e l’esecuzione.
Quali sono dunque le regole d’oro emerse per gestire una crisi? Riassumiamole:
- 1) Non negare la realtà della crisi: affrontarla di petto appena se ne hanno i primi sentori. Prima si agisce, più opzioni saranno disponibili. Ignorare i segnali peggiora solo la situazione.
- 2) Coinvolgere subito esperti qualificati: non avere paura di chiedere aiuto. Commercialisti, avvocati, consulenti di direzione con esperienza in crisi possono vedere soluzioni dove l’imprenditore, emotivamente coinvolto, magari non riesce. Il costo della consulenza è un investimento per salvare l’azienda.
- 3) Predisporre un piano industriale serio e credibile: niente improvvisazione. Il piano deve essere basato su dati reali, analisi di mercato, ipotesi prudenti. Meglio promettere meno e mantenere di più che viceversa – i creditori apprezzano la concretezza.
- 4) Comunicare, comunicare, comunicare: la trasparenza paga. Tenere informati dipendenti, fornitori, banche, clienti delle mosse chiave genera comprensione e talvolta supporto. Le informazioni vanno calibrate (non divulgare segreti strategici), ma i partner devono sapere che c’è un piano e qual è la direzione.
- 5) Usare gli strumenti legali in modo appropriato: ad esempio, se l’azienda è ancora salvabile e c’è spazio di negoziazione – tentare una composizione negoziata prima di un concordato. Se il debito fiscale è pesante – prevedere una transazione fiscale invece di illudersi di poter pagare tutto. Conoscere la legge (o farsi ben consigliare) permette di scegliere la via migliore e anche di evitare passi falsi (come pagare preferenzialmente qualcuno pochi mesi prima del fallimento, gesto che verrà annullato dal curatore; meglio inserirlo in un piano concordato legittimo).
- 6) Mettere i creditori al centro: un errore è pensare solo a come salvare l’azienda dimenticando l’interesse dei creditori. Occorre sempre chiedersi: la mia proposta è conveniente per i creditori rispetto alle alternative? Se sì, c’è buona chance che la accettino (o che il tribunale la omologhi). Se no, bisogna rivederla. Questo vale sia in trattative private sia in procedura. In fondo, un concordato/accordo funziona se tutti ottengono qualcosa di meglio rispetto allo scenario peggiore.
- 7) Non arrendersi ma nemmeno ostinarsi irragionevolmente: c’è una linea sottile tra la tenacia nel risanare e l’accanimento futile. Se davvero, nonostante gli sforzi, si capisce che l’impresa non è più economicamente sostenibile, a volte la scelta più saggia è fermarsi con dignità, utilizzare la procedura liquidatoria e l’esdebitazione per chiudere l’esperienza e magari ripartire da zero in altra forma. Il Codice della Crisi non a caso ha reso meno penalizzante il fallimento personale (fresh start in 3 anni): perché vuole incoraggiare l’imprenditore a non trascinare aziende decotte, ma a liberarsene e forse ricominciare su basi migliori. Viceversa, se c’è anche solo un barlume di risanabilità, la legge e gli strumenti odierni danno all’imprenditore l’opportunità di giocarsi quella chance.
In conclusione, “uscire dalla crisi” non è mai semplice né garantito, ma oggi più che mai esistono strumenti e conoscenze per farlo con successo. Molte imprese italiane negli ultimi anni sono riuscite a ristrutturarsi, talvolta uscendo più forti di prima. Il segreto sta nell’affrontare la crisi come un percorso di cambiamento, in cui ogni decisione – giuridica o aziendale – va presa con professionalità e visione strategica. Speriamo che questa guida abbia fornito un orientamento chiaro sulle strategie legali e pratiche disponibili. Di fronte a una crisi, l’imprenditore non è solo: può contare su una squadra di professionisti e su un impianto normativo pensato proprio per aiutarlo a superare il momento difficile e tornare a creare valore.
Glossario dei Termini Principali
- Crisi d’Impresa: stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza futura dell’azienda, manifestandosi come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a sostenere le obbligazioni nei successivi 12 mesi. È un “pre-allarme” di insolvenza, concetto introdotto dal Codice della Crisi.
- Insolvenza: stato conclamato in cui il debitore non è più in grado di pagare regolarmente i propri debiti. Giuridicamente definito dallo stato d’inefficacia dei mezzi finanziari per far fronte alle obbligazioni a mano a mano che scadono. L’insolvenza attuale è presupposto per la liquidazione giudiziale (fallimento).
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII): il Decreto Legislativo 14/2019 (come modificato) che ha riformato organicamente la materia delle procedure concorsuali in Italia, sostituendo la Legge Fallimentare del 1942. Entrato in vigore il 15 luglio 2022, introduce strumenti di allerta, composizione negoziata, concordati, ecc.
- Adeguati Assetti Organizzativi: obbligo per l’imprenditore (art. 2086 c.c. e art. 3 CCII) di dotarsi di un’organizzazione amministrativa e contabile idonea a rilevare tempestivamente la crisi e la perdita di continuità. In pratica significa avere sistemi di controllo di gestione, flussi di cassa previsionali e governance adeguata alle dimensioni aziendali.
- DSCR (Debt Service Coverage Ratio): indice finanziario = Flussi di cassa disponibili / Debito da pagare nel medesimo periodo. Valore <1 indica incapacità prospettica di pagare i debiti con la cassa generata. Usato come principale indicatore di crisi prospettica a 6-12 mesi.
- Piano Attestato di Risanamento: piano di risanamento aziendale predisposto dal debitore e attestato da un professionista indipendente circa fattibilità e veridicità dati, senza intervento del tribunale. Se eseguito, protegge da revocatorie fallimentari e responsabilità penali gli atti compiuti in attuazione del piano.
- Accordo di Ristrutturazione dei Debiti: accordo tra debitore e creditori che rappresentino ≥60% dei crediti, omologato dal tribunale. Vincola solo i creditori aderenti (i non aderenti vanno pagati integralmente), salvo estensioni previste (ad es. ad altri finanziari con 75%). Richiede attestazione di fattibilità e convenienza.
- Concordato Preventivo: procedura concorsuale giudiziale in cui l’imprenditore propone ai creditori un piano per soddisfarli almeno in parte, evitando il fallimento. Può essere in continuità (l’azienda prosegue l’attività) o liquidatorio (cessazione attività e liquidazione beni). Deve essere approvato dai creditori (maggioranza del passivo) e omologato dal tribunale, vincolando tutti i creditori anteriori.
- Composizione Negoziata della Crisi: procedura volontaria e riservata introdotta nel 2021 per aiutare le imprese in crisi reversibile. Prevede la nomina di un esperto indipendente che assiste l’imprenditore nel negoziare con i creditori soluzioni di risanamento. Non è una procedura concorsuale, ma può sfociare in accordi stragiudiziali o preludere a concordato/accordi formali. Durante la CNC si possono chiedere misure protettive (stay) e l’esperto media tra le parti.
- Transazione Fiscale (e Contributiva): accordo nell’ambito di concordato o accordo di ristrutturazione in cui si prevede il pagamento parziale/dilazionato dei debiti tributari e previdenziali. Richiede il voto favorevole degli enti (Agenzia Entrate, INPS, etc.) salvo cram-down possibile in certi casi . Permette di falcidiare IVA, imposte e contributi (prima non era consentito).
- Liquidazione Giudiziale: la procedura di fallimento secondo il CCII. Viene aperta dal tribunale in caso di insolvenza dell’imprenditore soggetto (non minore). Un curatore gestisce l’impresa, liquida l’attivo e ripartisce il ricavato ai creditori secondo prelazioni. Ha durata contenuta (obiettivo 3 anni) e prevede l’esdebitazione di diritto per il debitore persona fisica onesto a fine procedura.
- Sovraindebitamento: situazione di insolvenza o difficoltà grave di soggetti non fallibili (consumatore, piccolo imprenditore sotto soglie, professionista). Le procedure da sovraindebitamento includono: Piano del consumatore (ora “piano di ristrutturazione del consumatore”), Concordato minore (simile al concordato preventivo ma per debitori minori), Liquidazione controllata (parallela al fallimento). Consentono di liberare il debitore dai debiti residui (esdebitazione) a determinate condizioni.
Perché Affidarsi a Studio Monardo per Uscire dalla Crisi d’Impresa
Quando un’impresa entra in crisi – a causa di debiti bancari, fiscali, verso fornitori o per un calo dei ricavi – l’errore più grave è non agire subito.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa scegliere una gestione strategica della crisi, con l’obiettivo di salvare l’attività, proteggere il patrimonio aziendale e personale e ricostruire il futuro.
Un Esperto in Crisi Aziendali Complesse
L’Avvocato Monardo, coordinatore di una rete nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario, tributario e della crisi d’impresa, vanta un’esperienza solida nella gestione di:
- Crisi finanziarie di imprese individuali, società di persone e società di capitali
- Procedure negoziate di composizione della crisi
- Piani di ristrutturazione aziendale e accordi con i creditori
- Liquidazione controllata e protezione del patrimonio
Monardo sa costruire strategie pratiche e su misura, evitando il fallimento e preservando la continuità aziendale ogni volta che è possibile.
Come Ti Aiuta Concretamente a Uscire dalla Crisi
Affidandoti all’Avvocato Monardo puoi:
- Analizzare la reale situazione economico-finanziaria dell’impresa
- Predisporre un piano di rientro o di ristrutturazione sostenibile
- Negoziare con banche, fornitori e Agenzia delle Entrate soluzioni di saldo a stralcio o dilazioni protette
- Accedere alla Composizione Negoziata della Crisi (ai sensi del D.L. 118/2021)
- Bloccare pignoramenti e azioni esecutive sui beni aziendali e personali
- Proteggere soci e amministratori da responsabilità ulteriori
Ogni azione è studiata non solo per sopravvivere alla crisi, ma per costruire una vera ripartenza aziendale.
Gestore della Crisi da Sovraindebitamento e OCC
Se l’impresa non è fallibile (come accade spesso per imprese individuali e microimprese), Monardo può attivare procedure alternative come:
- Liquidazione controllata del patrimonio
- Concordato minore
- Accordi di composizione della crisi
Essendo Gestore della Crisi da Sovraindebitamento iscritto al Ministero della Giustizia e fiduciario di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC), Monardo offre soluzioni rapide, sicure e certificate.
Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa
Inoltre, Monardo è abilitato come Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa e può:
- Condurre trattative stragiudiziali protette con i creditori
- Costruire piani di risanamento aziendale credibili e omologabili
- Evitare l’apertura di procedure concorsuali invasive, salvaguardando l’attività
Il tutto garantendo la massima tutela legale e riservatezza.
Conclusione
Uscire dalla crisi d’impresa è possibile, ma serve agire subito e con la guida giusta.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa avere al tuo fianco un professionista competente, strategico e concreto, capace di trasformare la crisi in un’opportunità di rilancio.
Con Monardo, la tua azienda può essere salvata, ristrutturata e pronta a ripartire più forte di prima.
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