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Rimborso Iva: limiti “temporali” per il calcolo degli interessi di mora


La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9111/2025, ha sancito il principio di diritto secondo cui in caso di rimborso del credito Iva – nelle modalità dell’articolo 38-bis, comma 1, D.P.R. 633/1972non si computa, ai fini della decorrenza degli interessi di mora, il periodo intercorrente tra la data di notifica della richiesta di documenti da parte dell’Amministrazione finanziaria e la data della loro consegna da parte del contribuente, se superiore a quindici giorni, senza che assuma rilievo, in senso opposto, il fatto che la richiesta integrativa sia fatta nei novanta giorni successivi alla presentazione della dichiarazione annuale o successivamente.

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Rimborsi Iva: quando l’erario deve corrispondere gli interessi al contribuente?

L’articolo 38-bis, D.P.R. 633/1972, al primo comma, prevede che “I rimborsi previsti nell’articolo 30 sono eseguiti, su richiesta fatta in sede di dichiarazione annuale, entro tre mesi dalla presentazione della dichiarazione. Sulle somme rimborsate si applicano gli interessi in ragione del 2 per cento annuo, con decorrenza dal novantesimo giorno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, non computando il periodo intercorrente tra la data di notifica della richiesta di documenti e la data della loro consegna, quando superi quindici giorni”.

Tale norma va letta con particolare attenzione e coordinata con l’articolo 183, Direttiva 2006/112/CE, la quale, nel garantire un margine di discrezionalità agli Stati membri, impone che il rimborso non vada a ledere il principio di neutralità fiscale, garantendo al soggetto passivo di recuperare la totalità del credito risultante dall’eccedenza cui egli ha diritto, in modo che il rimborso sia eseguito entro un termine ragionevole. In ogni caso, il sistema di rimborso adottato non dovrà esporre il soggetto passivo al rischio finanziario (Corte di Giustizia UE, Enel Maritsa, C-107/10; Philips Oràstie, C-487/20; SC Cridar Cons, C-582/20).

Di conseguenza, qualora il rimborso dell’eccedenza Iva non avvenga entro un termine ragionevole, il soggetto passivo ha diritto agli interessi di mora siccome, in caso contrario, la sua situazione risulterebbe pregiudicata, in violazione del principio di neutralità fiscale.

Anche se l’articolo 183, Direttiva 2006/112/CE, non preveda espressamente l’obbligo di corresponsione degli interessi sull’eccedenza Iva da rimborsare e non specifichi neppure il dies a quo ai fini della determinazione relativa, il principio in esame comporta che le perdite finanziarie generate da un rimborso eseguito oltre un termine ragionevole siano compensate dal pagamento degli interessi (Corte di Giustizia UE, Nidera, C-387/16; Agrobet, C-446/18; CS, C-844/19).

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Di conseguenza, per escludere la debenza degli interessi è necessario stabilire che il rimborso sia stato eseguito entro un termine ragionevole (Cassazione n. 28333/2018 e n. 16101/2022) oppure che non sia configurabile la mora del debitore, ossia del fisco, per mancanza di certezza del diritto (Cassazione n. 28257/2013 e n. 28258/2013). Il termine ragionevole è stato appunto previsto dal comma 1 dell’articolo 38-bis, D.P.R. 633/1972, ossia in novanta giorni (Cassazione n. 25164/2022).

Infatti, il Legislatore ha ritenuto di riservare al Fisco un termine ragionevole per la decisione, fissandolo appunto in novanta giorni e senza computare il periodo compreso tra la notifica della richiesta di documenti e la data della loro consegna. La decorrenza di tale termine non è al contempo scalfita da risposte del contribuente alla richiesta di documentazione in un margine temporale ristretto al di sotto dei quindici giorni.

Superato tale termine, la richiesta documentale, a prescindere dal momento in cui avvenga, sospende il c.d. termine ragionevole di novanta giorni che la legge concede al Fisco per la valutazione dell’istanza di rimborso del contribuente. La sospensione superiore a quindici giorni incide, quindi, sulla decorrenza degli interessi, a prescindere dal momento temporale in cui sia, eventualmente, collocata, e cioè tanto nei primi novanta giorni dalla presentazione dell’istanza che successivamente. Quindi, qualora si avvallasse una lettura dell’articolo 38-bis, comma 1, D.P.R. 633/1972, che ritenga irrilevanti, ai fini della sospensione, richieste documentali avanzate nel periodo di novanta giorni concesso al Fisco per decidere, anche ove superiori al periodo di quindici giorni, finirebbe per privare l’amministrazione del termine ragionevole dei novanta concesso per la verifica dei requisiti necessari a dare riscontro positivo all’istanza di rimborso.

A tal punto, per la Cassazione (n. 20510/2013) non è possibile ipotizzare una stasi dell’attività amministrativa a discrezione del contribuente, addossando al Fisco l’onere di corrispondere gli interessi su somme che non possa liquidare per fatti addebitabili al richiedente.

Di conseguenza, va puntualizzato come l’articolo 38-bis, comma 1, D.P.R. 633/1972, incentivi la collaborazione e la sollecitudine del contribuente che, grazie alla previsione che rende irrilevanti, ai fini della decorrenza del termine di novanta giorni, risposte alle istanze documentali del fisco, inferiori a quindici. Il mantenersi sotto a tale termine implica un’assoluta certezza dell’applicazione degli interessi riconosciuti dalla norma una volta decorsi i novanta giorni dall’istanza.

Ma in quali casi la richiesta di chiarimenti e documenti può essere considerata tamquam non esset al fine della decorrenza degli interessi?

Ciò accade nella sola ipotesi ove si riveli manifestamente pretestuosa o dilatoria o riguardi una documentazione già in possesso dell’Amministrazione finanziaria.

 

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I fatti di causa

La vicenda riguarda l’ammontare degli interessi calcolati su un rimborso Iva, inizialmente liquidato dal Fisco in misura ridotta rispetto alla richiesta della società contribuente, sulla cui istanza di restituzione si era formato il c.d. silenzio rifiuto.

In buona sostanza, dopo l’istanza di rimborso Iva avanzata dalla contribuente, il Fisco presentava una richiesta di documenti necessari, al fine di effettuare un controllo sui requisiti per il riconoscimento del diritto al rimborso e sulla regolarità del credito Iva riportato in dichiarazione. Dopo circa 80 giorni la società ottemperava alla richiesta e forniva la documentazione a cui replicava l’Agenzia dichiarando la chiusura della fase istruttoria e richiedendo alla società la garanzia ex articolo 38-bis, D.P.R. 633/1972, in quanto non sussistevano i requisiti per l’esonero. Da qui la società dapprima produceva la polizza fideiussoria e successivamente notificava la cessione del credito ad una società di factoring, a cui replicava il Fisco richiedendo chiarimenti (ad entrambe) in merito all’atto di cessione. Dopo le opportune produzioni integrative, il Fisco riconosceva il rimborso Iva ed una somma parziale a titolo di interessi. Da qui la società ricorreva avverso il silenzio rifiuto innanzi alla CGT di I° grado di Milano che rigettava il ricorso. Avverso tale decisione la società ricorreva in appello ove la CGT di II° della Lombardia accoglieva le doglianze della contribuente. Da qui la questione finiva sul tavolo della Cassazione, a seguito di ricorso proposto dall’Agenzia.

 

La decisione della Cassazione

I giudici di cassazione, analizzando la norma de quo – ossia l’articolo 38-bis, comma 1, D.P.R. 633/1972, hanno dapprima affermato il seguente principio di dirittoIn caso di rimborso del credito IVA, ai sensi dell’art. 38 bis, comma 1, d.P.R. 26/10/1972, n. 633, non si computa, ai fini della decorrenza degli interessi di mora, il periodo intercorrente tra la data di notifica della richiesta di documenti da parte dell’amministrazione finanziaria e la data della loro consegna da parte del contribuente, se superiore a quindici giorni, senza che assuma rilievo, in senso contrario, la circostanza che la richiesta integrativa sia fatta nei novanta giorni successivi alla presentazione della dichiarazione annuale o successivamente”.

Successivamente, i giudici di legittimità hanno ritenuto che, sempre in tema di rimborso, la richiesta del Fisco di documenti al contribuente non è sindacabile dal giudice di merito a meno che, alla luce di una valutazione complessiva del quadro fattuale e giuridico, non si riveli manifestamente pretestuosa o meramente dilatoria e contraria al principio di ragionevolezza.

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Di conseguenza, la Cassazione, nell’enucleare tali principi, ha accolto il ricorso dell’Agenzia, cassando la sentenza impugnata.



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