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il 2025 segna la svolta?


Nel mondo invisibile dove ronzano i server cloud e gli algoritmi dettano legge, i colossi della tecnologia sono da tempo nel mirino delle autorità fiscali. Oggi, sembra essere in attomo una sorta di resa dei conti. Dai boulevard di Parigi ai corridoi di Westminster, i governi stanno tracciando nuove linee guida fiscali per assicurarsi che Silicon Valley – e le sue controparti globali – paghino il giusto.

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Si tratta, almeno dal punto di vista dei governi, di garantire più giustizia fiscale nel digitale: una convinzione che ha dato vita a una rete di politiche nazionali, trattative internazionali e, in certi casi, tensioni commerciali. Un’analisi pubblicata su Technology Review si prova a spiegare perché molti Paesi, in tutto il mondo, stanno tassando le big tech.

Perché tassare le Big Tech: una questione di equità fiscale

I governi di tutto il mondo vogliono assicurarsi che le aziende tech, che generano enormi profitti sfruttando utenti e dati locali, contribuiscano equamente, visto che spesso pagano poche o nessuna imposta nei paesi in cui operano. I sistemi fiscali tradizionali non sono più adeguati alla nuova economia digitale, consentendo a queste imprese di spostare i profitti in paradisi fiscali.

Una questione su cui anche il settore delle Tlc ha spesso acceso i riflettori, chiedendo appunto maggiore equità in un’economia – quella digitale – dove anche loro contribuiscono a pieno titolo.

La questione fiscale riflette anche la crescente preoccupazione per l’enorme potere economico e politico delle big tech e la volontà dei governi di recuperare controllo.


Digital Services Tax e trade war

Il panorama mondiale della tassazione dei servizi digitali si evolve rapidamente, scatenando tensioni che vanno oltre i confini fiscali. Nell’aprile 2025, l’annuncio del presidente Donald Trump di nuovi dazi sulle importazioni ha scosso l’intero sistema commerciale globale. Leader europei, tra cui Emmanuel Macron, hanno definito la misura “brutale e infondata”, ventilando contromisure come investimenti sospesi e nuove tasse digitali contro i colossi Usa.

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Particolarmente significativa è stata la direttiva di Trump del febbraio 2025, in cui si puntava il dito contro le Dst europee, minacciando ritorsioni nel quadro della sua politica di “commercio reciproco”. Il memorandum sollecitava indagini approfondite contro le tasse digitali ritenute discriminatorie.

Questi eventi mostrano quanto la fiscalità digitale sia ormai intrecciata con le dinamiche geopolitiche e commerciali.


Le Web tax nazionali

Paesi come Francia Regno Unito, India e Australia hanno introdotto tasse unilaterali, provocando reazioni a catena negli accordi multilaterali. Il rifiuto da parte degli Usa dell’approccio Ocse (Pillar One) ha alimentato il divario tra chi cerca un accordo globale e chi agisce per conto proprio.

La posta in gioco è alta: equità fiscale, sovranità nazionale, ma anche la sopravvivenza degli accordi commerciali internazionali.


Le mosse della Francia

Nel cuore dell’Europa, la Francia ha sfidato per prima i giganti digitali con una tassa del 3% sui ricavi generati sul suo territorio, applicabile alle aziende con oltre 750 milioni di euro di fatturato globale e almeno 25 milioni in Francia.

L’obiettivo era chiaro: tassare i profitti dove viene creato il valore, non dove vengono registrati per convenienza fiscale. Questa mossa ha suscitato l’opposizione degli Stati Uniti ma ha ispirato altri paesi europei, portando il tema della tassazione digitale giusta al centro del dibattito globale.


Il Regno Unito alla ricerca di un “equilibrio” digitale

Anche il Regno Unito ha scelto la via della tassazione digitale con un’aliquota del 2% dal 2020. L’imposta mirava ai ricavi da motori di ricerca, social network e marketplace, con l’intento dichiarato di essere temporanea fino a un accordo globale.

Nel 2025, la situazione si complica: con la reintroduzione dei dazi Usa, Londra è sotto pressione e deve tutelare le proprie industrie digitali cercando nuovi accordi economici.

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Le altre tasse digitali europee

Anche Austria, Italia e Spagna hanno implementato le loro tasse:

  • Austria: tassa del 5% sulla pubblicità digitale (dal 2020).
  • Italia: tassa del 3%, estesa nel 2025 a tutte le aziende con oltre 750 milioni di euro di fatturato, eliminando la soglia dei 5,5 milioni locali.
  • Spagna: tassa del 3% dal 2021 su pubblicità online e intermediazione.

La nuova strategia italiana, che elimina le soglie minime di ricavi locali, ha rafforzato la pressione fiscale sui big tech globali.


Uno sforzo globale

L’Europa non è sola. India, Canada, Australia e numerosi paesi africani stanno cercando di recuperare gettito perso attraverso le tasse sui servizi digitali.

Africa: Nuove Frontiere della Tassazione Digitale

  • Sudafrica ha esteso la raccolta IVA su servizi digitali dal 2014.
  • Kenya ha sostituito la DST nel 2024 con una tassa SEP basata sulla presenza economica significativa.
  • Nigeria ha introdotto una tassa del 6% sui fornitori digitali esteri.
  • Uganda e Tanzania hanno provato a tassare l’uso dei social media, provocando reazioni pubbliche negative.

L’evoluzione in Asia-Pacifico

  • India ha abolito nel 2025 le sue tasse per allinearsi con l’Ocse e ridurre le tensioni con gli Usa.
  • Filippine: Iva del 12% su servizi digitali stranieri (streaming, ricerca online).
  • Australia: nuova tassa nel 2025 per colossi come Google, Meta, TikTok.
  • Malesia: ha sospeso nuove tasse sotto pressione statunitense.
  • Cina: incentivi fiscali per l’innovazione domestica, nessuna tassa contro aziende estere per evitare attriti commerciali.

Il Canada e le tensioni con gli Stati Uniti

Il Canada ha introdotto la sua web tax nel 2024, con effetto retroattivo al 2022. Gli Stati Uniti l’hanno giudicata discriminatoria, aprendo un contenzioso commerciale culminato nel 2025 con l’annuncio di dazi di ritorsione contro Canada e Francia.


Coordinamento Globale o Caos Fiscale?

Il 2025 si prospetta decisivo per il futuro della riforma fiscale internazionale. Le due proposte Ocse:

  • Pillar One: ridistribuire i diritti fiscali verso i paesi dove si genera il valore (senza necessità di presenza fisica).
  • Pillar Two: introduzione di una aliquota minima globale del 15%.

Sebbene oltre 140 paesi abbiano firmato in origine, l’attuazione è rallentata. Le priorità nazionali, la pressione degli Usa e ostacoli legali rendono il percorso incerto.

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La nuova amministrazione Trump ha reso il quadro ancora più complicato, opponendosi sia a Pillar One che a Pillar Two, giudicandoli penalizzanti per le aziende americane.


Verso la fine per i paradisi fiscali digitali?

Il dibattito sulla tassazione dei servizi digitali ha raggiunto livelli di tensione senza precedenti. Alcuni paesi spingono per equità e riforma, altri temono le ricadute economiche. In Europa e Asia, si punta a riequilibrare il potere delle big tech. Gli Usa, invece, reagiscono con dazi e minacce commerciali. L’era dei paradisi fiscali digitali sta finendo?



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